Beste hizkuntzetako lanen zerrenda

  Traduzione: Roberta Gozzi

 

 

 

—1—

 

Avevamo il cuore pieno di speranze: la prigione, la tortura e la morte erano sempre più lontane. Sotto si noi si vedevano i Pirenei e uno splendido sole si rifletteva sull'ala dell'aereo delle Forze Aeree Spagnole. Anch'io avrei perso il cappello, come accadde a te sul treno Marsiglia-Bruxelles, se l'avessi portato e se fosse possibile sporgere la testa dal finestrino di un aereo. Avevo voglia di sentire aria fresca sul viso; avevo abitato più celle che case e stanze di hotel, nella mia vita. Dato che non avevano potuto ammazzarmi, dovevano cancellare il mio nome dall'elenco dei cittadini. Nemmeno la Francia mi voleva, lo stesso commissario Thiellement che aveva arrestato te continua a comandare a Marsiglia, nel mondo; percorre l'Europa col suo album sotto il braccio, raccoglie le nostre fotografie e scrive la sua sentenza sotto ognuna di esse, un'annotazione da professionista affinché domani i tribunali ci giudichino con criterio, o affinché tutti i tenenti Portas sappiano con chi hanno a che fare se ci arrestano di nuovo. Gli spagnoli ci portavano a Bruxelles come i francesi fecero con te e, come te, andavamo allegri in esilio perché sapevamo che quell'allontanamento sarebbe stato breve, era una pura formalità, ben presto saremmo tornati ad unirci alla lotta del nostro popolo, più maturi, più forti, più saggi. Portavamo il sole nel cuore.

        Avrei sporto la testa dal finestrino e il vento mi avrebbe portato via il cappello. Ma su quell'aereo non c'era nessun passeggero generoso che avrebbe aperto la sua valigia per offrirmi il suo vecchio cappello come era successo a te. Da tempo siamo entrati nell'era in cui la giustizia si vergogna di se stessa, ora i detenuti, i carcerati, i deportati non vengono trasportati su voli di linea regolari, nessuna anziana donna può offrire un panino all'incatenato, i bambini non possono ammirarci come fossimo feroci sanguinari, le ragazze non possono innamorarsi di un criminale, le esecuzioni non si fanno più in pubblico. In questo siamo migliorati. Gli spagnoli ci portavano su un aereo militare in volo privato, un volo solo per noi. «Avete vinto!» ci dicevano i poliziotti. Non era vero, il braccio di ferro era appena iniziato, ma eravamo convinti che avremmo conosciuto qualcosa di simile alla stagione delle ciliegie. Credo che tutti pensavamo la stessa cosa e qualcuno disse: «Per lo meno il viaggio è gratis!», più ironico che pessimista.

        Atterrammo e non ci muovemmo, restammo a guardare il minibus della polizia belga che si avvicinava a noi, come se avessimo ancora le mani ammanettate ai sedili. Non ci alzammo fino a quando ebbero collocato la scaletta. I nostri accompagnatori ci lasciarono uscire per primi, «Buona fortuna»!, sentii dire mentre abbassavo la testa per uscire. Non appena toccammo terra ci aprirono la porta del minibus, sembrava che fossimo in stato d'arresto.

        — Guarda! —mi disse Mateo.

        La Polizia belga riaccompagnava i poliziotti sull'aereo, senza consentire loro di mettere piede all'interno dell'aeroporto.

        — Stiamo vincendo la sfida contro lo stato! —di nuovo all'orecchio e quasi scherzando.

        Ci fecero attraversare la città, le strade erano strette e buie. Molti locali e negozi mostravano insegne con nomi spagnoli.

        — Immigrati —commentai.

        — O la quinta colonna di Filippo II! —Mateo rideva.

        Non eravamo detenuti, ci lasciarono in Grande Place. Comprammo delle rose e ce le infilammo all'orecchio e all'occhiello, come zingari che ritornano da un matrimonio. In un angolo apparve una bandiera basca e da quel momento non ci fu più pace.

 

 

Il giornalista era più vecchio di noi, tuttavia mi confessò: «io ho iniziato ad avere una coscienza politica grazie a voi», «voi siete riusciti dove non è riuscito il maggio '68». Sfoggiava ancora una sciarpa floscia e lunga, sembrava un eterno studente universitario.

        — Non ti concederò nessuna intervista. Quello che dobbiamo dire lo diremo domani, durante la conferenza stampa.

        — Non sono venuto per questo. Sono venuto a ringraziarti, quando ho saputo che ti avrebbero ucciso, ho capito che in Europa il fascismo continuava ad essere vivo. E abbiamo lottato. E la polizia ha sparato contro di noi, in Europa.

        Ci sono stati feriti, morti immolati col fuoco per salvare tutti quelli che il Generalissimo continuava a condannare alla grande cloaca. E mi ringraziavano, perché avevo aiutato a mostrare che la tirannia può essere vinta. Come se ringraziassero il coraggio di un impiccato.

        — Ti chiedo un favore, pagando.

        Prima di rispondere finì la sua birra.

        — Non ho molti contatti. Non sono in grado di procurarti documenti falsi.

        — Voglio notizie di un amico. E' stato da queste parti, ho bisogno di dati su di lui.

        Ero in debito con te, questo era ciò che mi girava per la testa da quando ero scampato alla morte, ti dovevo la capacità di aver tenuto il mio terrore solo per me stesso. Nella mia giurisdizione interna, anch'io ero un giustiziato.

        Il tuo nome non gli era nuovo, comunque lo annotò confessandomi che non era molto forte in storia della Spagna. Mentre scriveva mi chiese:

        — Che intenzioni hai? Chiederai asilo politico? Pensi di tornare clandestinamente?

        — Tu non molli finché non hai ottenuto la tua intervista... —pensai che dovevo difendermi—. In Belgio ci sono tipografie clandestine?

        Mi guardò stupito.

        — Non lo so... —forse pensò che l'avessi preso per un poliziotto—. Può darsi...

        — Mi piacerebbe vivere in un posto in cui non ci fosse bisogno di tipografie clandestine.

        Non ebbe tempo di chiedermi altro. Eugenio si avvicinò a noi allegro, «Guarda, guarda»! e indicava se stesso. Erano anni che non bevevamo, doveva essere un po' ubriaco.

        — Accompagnatemi a fare una foto prima che mi si sciolga la schiuma sui baffi!

        Mi prese per la spalla ed uscendo vidi il sorriso del giornalista nello specchio. Mi faceva un gesto di approvazione alzando il pollice sul pugno chiuso mentre strizzava un occhio. Era la prima volta che mi salutavano così.

        È di allora l'unica foto di Eugenio coi baffi bianchi: l'hanno ucciso prima che potessero davvero diventargli così.

 

 

Non c'era nessuno nella sede del Volsunik e ci stupì che gli europei non fossero puntuali. Sicuri che ben presto sarebbero arrivati, ci sedemmo ad aspettare nella Piazza delle Barricate. Allora Mateo mi chiese quante volte ero stato sul punto di ammazzare qualcuno. Voleva dire quante volte avevo puntato il nemico con la mia pistola. Quella domanda di Mateo dimostrava il livello della nostra militanza all'epoca.

        — Una cosa è voler ammazzare ed un'altra prendere la mira. Per tirare il grilletto bisogna averne l'occasione.

        Me lo raccontò quasi scherzando.

        — Una volta sono stato sul punto di tirar fuori la pistola e farla finita con tutto. Stavo come adesso, seduto su una panchina come questa, in un parco, e un tipo mi si è seduto vicino.

        — Sarà stato un poliziotto e avrà voluto divertirsi alle tue spalle, avrà voluto mettere alla prova i tuoi nervi.

        — O forse anche lui aveva voglia di farla finita una volta per tutte. Avrà voluto che l'ammazzassi. Succede. Ma quando avevo ormai impugnato la pistola, il tipo si è alzato e se n'è andato. Ed io l'avrei ammazzato se si fosse alzato solo alcuni secondi più tardi.

        «Farla finita con tutto», «voglia di finirla», stava giocando. Era cambiato, mi sembrava che fosse un altro rispetto a quello che sei anni prima avevo conosciuto per un mese nel carcere di Burgos. O forse l'avevo conosciuto solo superficialmente.

        — Avevo paura, avevo una paura terribile, sapevo troppo ed ero sicuro che non avrei sopportato la tortura. Mi terrorizzava l'idea di essere arrestato.

        Lo tennero diciotto giorni in uno dei loro tanti Montjuich, Lilio.

        — Io cercavo di ricordarmi sempre di Txabi, mi dava coraggio.

        — Per questo è morto, affinché noi potessimo sopportare la tortura, razza di testone! —Mateo era emozionato.

        Dopo aver tossito varie volte ritornò alla conversazione iniziale.

        — A volte è meglio farla finita. E tu, speravi di uscirne vivo?

        Quello era il momento, Lilio, per confessare fino a che punto ero un codardo. Era il momento di confessare che io non sarei morto come un vero patriota. Ma ancora una volta tenni per me le mie paure.

        — No.

        — Ah, ah! Ti avrà fatto piacere sentire come dicevo che il Generale non avrebbe potuto graziarti!

        — Le tue parole, Mateo, erano inezie per me.

        Non rispose, rimase a fissare i movimenti del leone della bandiera delle Fiandre, come se ciò che avevo appena detto non lo riguardasse. Mi pentii della mia sincerità.

        — Mateo, io...

        Prima che potessi dirgli che mi avrebbero legato alla forca spregevole, al crudele patibolo, alla gogna insultante, alla garrota vile, Mateo si avviò in una corsa pazza verso il monumento a Vesalio, come se volesse che le automobili lo investissero. I piccioni si alzarono in una nuvola. Da lì mi sorrise puntandomi la mano con il gesto della pistola con. Poi, appoggiandosi ai finestrini dalla parte dell'autista, iniziò a controllare i contachilometri delle automobili parcheggiate, come se cercasse quella più veloce, per prendersela. Avevamo fretta di fare la rivoluzione.

 

 

Mi aveva dato appuntamento alla mensa della Facoltà di Lettere, quel Jean Claude era realmente l'eterno universitario. Pensai che poteva essere un modo di vivere, ripetere e ripetere ancora l'ultimo anno di corso, scrivere collaborazioni per i settimanali di sinistra, vivere in casa di una madre vedova.

        — Faccio lezione due volte al mese.

        Sarà stato vero, ma gli studenti si rivolgevano a lui come fosse un compagno di classe. Mense economiche per gli studenti e professori politicizzati ai quali si poteva dare del tu: eravamo in Europa. Estrasse una fotografia da un grosso libro, me la mostrò. Seminascosta dalle corone e dai fiori che coprivano il féretro, si vedeva la madre di Txiki che piangeva, l'adesivo con l'immagine di suo figlio e di Otaegi sul petto.

        — Siccome hanno salvato me hanno dovuto fucilare loro. Li hanno fucilati perché non hanno potuto ammazzare me. E' stata la vendetta del regime.

        Fece finta di non sentire le mie parole. Puntò il dito nel mezzo di una corona.

        — Su questa corona c'è un nastro, e sul nastro ci sono alcune parole, in spagnolo. Voglio che me lo confermi.

        «Al mio amico Txiki. Alekos Panagulis», si poteva leggere. Non capivo.

        — Io ero in prigione. Non posso aiutarti.

        Dopo alcuni anni mi hanno regalato un libro di Oriana Fallaci. Solo allora ho saputo chi era Panagulis, un idealista che voleva liberare la Grecia dalla tirannia, un pazzo che credeva nell'uso pulito e preciso della dinamite, Lilio, un ammirevole pazzo che ci ammirava. Ma il giornalista sapeva già qualcosa di lui.

        — Che tipo di relazione avete avuto voi separatisti baschi con i rivoluzionari greci?

        Mi pentii di avergli chiesto un favore. Avrebbe dovuto sapere che io non potevo sapere niente, ma evidentemente voleva un'intervista esclusiva, o forse gli piaceva il dibattito politico.

        — Molto stretta e profonda. Loro venivano ammazzati dai colonnelli e noi, fino a poco tempo fa, da un Generalissimo.

        — Il re che Franco ha nominato suo erede è sposato con la sorella dell'ex-re di Grecia.

        Scoppiai in una risata. Benché si fosse politicizzato grazie a noi, Jean Claude vedeva la politica come un gabinetto di intrighi.

        — E del mio amico, che cosa mi dici?

        — Lo avevano deportato a Bruxelles da Marsiglia. Poi lavorò a Liegi. Sono stati scritti alcuni articoli su di lui quando l'ammazzarono. Sono microfilmati nella Facoltà di Storia, ho chiesto che me ne facciano una copia. Hai fretta?

        Non rimanemmo molto tempo a Bruxelles. Ben presto ci arrivò l'avviso di ritornare nel Paese Basco dove era stata organizzata clandestinamente un'apparizione pubblica.

        — Sarà contento il tuo giornalista, quello avrebbe voluto venire con noi!—commentò Mateo mentre guardava i pioppi sul ciglio della strada.

        Non ci pensavo più e non gli risposi, anch'io contemplavo il paesaggio piatto e monotono, domandando a me stesso se il Generalissimo aveva calcolato che lasciandomi vivere mi avrebbe annullato. Non avrei mai potuto sapere se sarei stato in grado di affrontare la morte così crudele che avevo immaginato come l'azione più importante della mia vita.

 

 

 

© Koldo Izagirre
© Traduzione: Roberta Gozzi


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