Beste hizkuntzetako lanen zerrenda

  Traduzione: Roberta Gozzi

 

 

 

—1—

 

Fui rinchiuso. Nella stessa cella in cui rinchiusero anche te. Mi imprigionarono proprio in quella cella. Ma tra quelle pareti che un giorno ti avevano tenuto segregato, non pensai a te. Non avrei potuto farlo.

        Era la prima volta che mi trovavo in quella situazione e non riuscivo a preoccuparmi che di me stesso. Solo dopo alcuni anni, quando giurai che con una morte dignitosa avrei vendicato i compagni morti e torturati, ti ritrovai nella mia cella spagnola, a Burgos. Ma in quella prima galera che conobbi a Bergara mi teneva compagnia solo la sporcizia. La muffa occhieggiava dal buco che serviva da latrina; indietreggiai, orinai da lontano.

        Ero nervoso, non sapevo ancora cosa significasse essere detenuto, avevo paura di me stesso. Non sapevo se i miei compagni sarebbero stati in grado di sostenere l'alibi che avevamo concordato, ben presto quelli si sarebbero resi conto che i documenti erano falsi.

        Mi raggomitolai contro la parete della porta. Sapevo che da lì a poco sarebbero iniziate le grida, volevo essere preparato per quando sarebbero venuti da me. Rimasi a lungo a fissare il buco, il gran ratto sarebbe uscito da lì e avrebbe iniziato a sferzarmi. Dovevo cercare la protezione delle pareti, sprofondare in esse, come stavano facendo i miei compagni torturati.

        «Dove andavi?»

        No, non mi avrebbero chiesto questo.

        «Dove andavate?»

        Sono venuto qui con l'autobus del mattino per iscrivermi alla scuola per geometri; non mi sono reso conto che oggi è sabato ed era chiusa. Non avevo voglia di aspettare l'autobus tutta la mattina. Allora mi sono messo sul ciglio della strada e ho fatto l'autostop.

        Sarebbero riusciti a fargli credere la nostra versione? Continuai a ripetermela finché anch'io non ne fui convinto. L'avevamo concordata all'ultimo momento, quando ci eravamo resi conto che non saremmo più potuti fuggire.

        «E quindi tu non sai cosa trasportava quell'auto?»

        Sentii rumore di passi. Io non ero schedato, se fossi stato in grado di sostenere la versione dell'autostop avrebbero dovuto liberarmi. E non avevo altra possibilità che sostenerla, dovevo dimostrare coraggio ai miei amici, dovevo uscirne libero in modo da poter fare quello che loro, da quel momento in poi, non avrebbero più potuto fare. Aprirono la porta, scattai in piedi. Dovevo far finta di essere spaventato, ma non troppo. Mi avevano detto che sotto tortura bisogna saper anche recitare.

        — Guardami negli occhi!

        Visti i baffi che gli scendevano fin sotto le labbra doveva essere Il Messicano, tutti noi avevamo sentito parlare di lui. Era in borghese, mostrava il calcio della pistola sotto la cintura. Mi chiese come mi chiamavo mentre osservava la mia carta d'identità. Il nome di mia madre, quello di mio padre, la data di nascita. E di nuovo come mi chiamavo.

        — E sai chi sono io?

        — No... no, signore.

        Mi diede un sonoro schiaffo, mi scaraventò per terra. Dal buco della latrina la testona del ratto mi sorrideva.

        — Tu non hai la stoffa per queste cose!

        Mi lasciarono solo. Non appena chiusero la porta mi rialzai prima che lo schifoso animale mi si avvicinasse. L'orecchio mi bruciava e un suono acuto mi perforava il cervello. Non dovevo perdere di vista quella bestia ripugnante, tanto paurosa quanto crudele. Mi ripulii le mani sfregandomele sui pantaloni. Sentii rumori di catenaccio nella cella accanto, dei passi. Stavano portando lì anche gli altri. Avrei dovuto ascoltare colpi, grida, domande, frustate. Mi calmai. Non sembrava importargli che io ascoltassi quello che dichiaravano gli altri, si erano bevuti la storia dell'autostop. Ma volevano terrorizzarmi: sarei stato un altro testimone diretto della tortura, un altro che aveva visto come il gran roditore si porta la gente nel pozzo nero, mi risucchiavano nell'enorme gruppo degli atterriti di cui il regime aveva bisogno.

        Strinsi i pugni fino a farmi male. Giurai vendetta, giurai che avrei vendicato i miei compagni martoriati. Da allora mi pervase un nuovo coraggio. Tu ne eri la fonte, ma io non lo sapevo. Non sapevo ancora che tu eri stato prima di me nella cella numero tredici della prigione di Bergara.

        Ora erano le grida di Andoni a perforarmi il cervello, più dolorose dello schiaffo del Messicano. Avanzai un passo e la testa del ratto svanì. Mi avvicinai al buco, volevo sputargli negli occhi. Trattenni il respiro. Pioggia marcia nello squarcio lasciato da un palo divelto da terra: avevo ricacciato il ratto negli inferi.

        Allora compresi, avvicinandomi alla finestra, che le grida di Andoni potevano essere un messaggio per i tranquilli cittadini che si avvicinavano al tribunale per un certificato di nascita: non tutti coloro che sono testimoni della tortura si nascondono nel gruppo degli atterriti. Mi asciugai le lacrime col dorso della mano. La fievole luce che arrivava dell'esterno mi mostrava le ferite della parete. Vi scorsi falci martelli evviva. Lì c'era stato qualcuno dopo di te e prima di me. Lanciai una sfida al sadico delle profondità e, nel chinarmi per afferrarlo, in un angolo di parete ancora grigio, inciso con un chiodo o con le unghie, lessi un nome.

 

 

Anch'io dovetti cambiare nome, lasciare famiglia lavoro amici nel mio piccolo paese, lontano dalla strada quanto lo è Foggia da Roma. Iniziai a frequentare nuovi amici, di cui conoscevo solo il nome di battaglia, consolidai i miei ideali nella lotta. In quei giorni di paura ed euforia conobbi molti uomini e donne che mi fecero vergognare di me stesso, giovani generosi, cuori appassionati, spiriti liberi. Ne conobbi anche uno che assomigliava molto a te, più nella morte che durante la vita; o forse sulla strada della morte, nel modo in cui l'ha anticipata. Anche lui avrebbe potuto essere un tipografo, sempre piegato sui libri. Senza alzare la testa dalla pagina mi chiedeva qualcosa, forse per rendermi partecipe di quello che stava leggendo in quel momento, o come se fosse necessario migliorare i dialoghi dei personaggi del romanzo. Mi faceva sempre domande, o per lo meno a me sembrava che mi stesse sempre mettendo alla prova, e spesso lo mandavo a quel paese. Alzava le spalle e continuava a leggere. Incassava molto bene e non sembrava importargli molto che io mi infastidissi. La verità è che poteva farlo perché era una di quelle persone che non perdono mai il controllo.

        — Tu credi che bisogna avere il cuore pieno di buoni propositi per fare la rivoluzione?

        — Sì, certo... per che motivo dovremmo fare la rivoluzione se non è per emancipare il popolo? Forse adesso questo non è più un buon proposito?

        Eravamo fermi a un semaforo, mi aveva risposto senza distogliere lo sguardo dalla luce rossa.

        — Veramente... si può fare la rivoluzione anche solo per prendere il potere.

        — Allora non è una rivoluzione, o sarà una rivoluzione tradita...

        — Questa macchina non va!

        Non mi aveva più prestato attenzione per un po'. Sorpassavamo lentamente i camion sulla strada tortuosa tra Markina ed Ondarroa, verso la costa di Bizkaia.

        — Ma non è abbastanza! Non è sufficiente avere il cuore pieno di buoni propositi! Bisogna anche avere qualcosa in mano!

        E così dicendo aveva infilato la destra nella tasca della giacca. Nel palmo della sua mano adesso c'era una pistola, una vecchia Astra.

        — Mettila via!

        A dire il vero, io avevo cominciato a lasciarmi crescere la barba, tipo quella del Che. Ma a quell'epoca la barba attirava molto l'attenzione e avevo dovuto radermela prima che diventasse troppo lunga. Ma quella era meglio.

        — Ha fatto due guerre, la prima in Catalogna e la seconda in Algeria.

        — E ora incomincia la terza, chiaro.

        — Proprio in questa mia mano!

        Credo che quel giorno, per la prima volta, mi resi conto di essere coinvolto in qualcosa che non mi avrebbe più abbandonato per il resto dei miei giorni, quando Txabi esclamò allegro:

        — Ne ho per tutti.

 

 

Si era fermato davanti alla vetrina di un negozio di abbigliamento senza avvisarmi, faceva spesso cose così. Ero tornato indietro per riunirmi a lui e in quel momento un uomo gigantesco l'aveva preso per la spalla chiamandolo per cognome: «Etxebarrieta!». Doveva essere un suo conoscente. Mi ero allontanato un po' ed ero rimasto ad aspettare all'angolo della strada. L'uomo ogni tanto mi guardava e gesticolava davanti al mio compagno, pensai che lo stesse rimproverando.

        — Un amico di mio padre —mi aveva chiarito quando si era liberato dell'energumeno—. Abbiamo fatto una scommessa!

        All'interno della scuola non c'era stato nessun problema, ci avevano accompagnato fino alla sala stampa in modo che potessimo mostrare loro l'enciclopedia universale che apparentemente eravamo lì per vendere. La fotocopiatrice era molto pesante, in due non saremmo riusciti ad alzarla da terra, ma la scuola aveva un'entrata comoda, la porta che dava sulla strada non era molto lontana da quell'aula e, scendendo da una scala un po' stretta, non si doveva neppure attraversare il cortile. Essendo l'ora dell'intervallo, il direttore ci aveva accompagnati, evitando così che le pallonate ci rompessero gli occhiali. Una fortuna.

        — Ho scommesso che vinceremo!

        Txabi era un chiacchierone quando guidava. L'automobile era il suo migliore ufficio.

        — Quel tipo mi ha sgridato perché mi sono messo nei guai.

        — In che guai ti sei messo, Txabi? —gli avevo chiesto senza nessuna ironia, pronunciando chiaramente le parole, accigliato.

        — Gli stessi in cui vi siete messi voi! —credo che sia stata l'unica volta che mi abbia guardato mentre guidava.

        — Noi? Allora tu non sei «noi»?

        — No... —aveva risposto con estrema tranquillità—, io mi muovo con voi, ma io non sono né voi né noi.

        Credo di avergli detto di non vendermi filosofia da quattro soldi. Avevo letto da qualche parte che uno può imborghesirsi per il tanto filosofare, mentre noi contro Franco eravamo passati dalla parola all'azione.

        — Senti: ho detto a quel tipo che vincerete, che per questo sto con voi.

        Molto più tardi, quando sono stati pubblicati i suoi scritti, quella posizione elitaria, che gli era rimasta come eredità degli anni giovanili, è apparsa formulata nei versi di una poesia:

 

                «Ogni volta che cammino verso di me

                mi chiedo:

                Chi sono i miei?

                Nell'immensità del silenzio

                uccelli che volano sopra i campi»

 

        Faceva pazzie e io direi che le faceva consapevolmente. Per esempio andare a controllare personalmente un luogo, rischiando di essere riconosciuto, per verificare la possibilità di rubare una fotocopiatrice. Adesso credo che mi stesse usando per mettere alla prova se stesso.

        — Non possiamo fallire, capisci? Non possiamo fallire, ho scommesso che vinceremo!

        Ed era scoppiato in una fragorosa risata. Mi ci sono voluto trent'anni per capire l'umorismo di Txabi.

 

 

Salite le vecchie scale, che dovevano essere quelle di un campanile, ci eravamo trovati nella stanza che aveva preparato per noi il parroco del paese: c'erano due letti con altrettanti cuscini. Non c'erano le lenzuola, ma tutto era pulito. Ci eravamo preparati per dormire. Avevo gettato lo zaino in un angolo e svuotato le tasche.

        — Non tenere la pistola sotto il cuscino!

        — Perché no? Dove vuoi che la metta?

        — Quelle sono abitudini da gangster...

        — Davvero? E tu come fai a saperlo, Lucky Luciano?

        — Non l'hai mai visto nei film? I gangster tengono sempre la rivoltella sotto il cuscino.

        Ricordo che una settimana prima mi aveva parlato dell'etica dei gangster.

        — E' il posto migliore se ti sorprendono mentre stai dormendo. Fanno così i gangster, ma anche i poliziotti, o credi che io non sia mai andato al cinema?

        — Non dire fesserie, come è possibile che sia il posto migliore! Un giorno o l'altro ti alzi per andare a fare un'azione e te la dimentichi sotto il cuscino, vedrai!

        Sapevo che nel mio caso quella non era una buona abitudine, perché dormivo con le mani sotto il cuscino e senza volerlo poteva succedere un incidente. Tuttavia avevo abbandonato la testa sul mio armato guanciale, sfacciatamente, sapendo che Txabi mi avrebbe ripreso.

        — Devo scrivere un racconto... Un uomo ha l'abitudine di mettere il fazzoletto sotto il cuscino, ha molto catarro e di notte gli è molto comodo, non deve inghiottire o alzarsi e andare in bagno. Una notte infila la mano sotto il cuscino e, mezzo addormentato, invece del fazzoletto afferra la pistola. E si spara un colpo in bocca mentre cerca di sputare. È ridicolo, non ti pare, morire a letto? Ci sono posti migliori...

        Il racconto non mi era piaciuto, il protagonista sarei potuto essere io. A questo pensiero ero ammutolito. Dopo un momento risposi:

        — Allora vedi di non sbagliare letto e non ti suiciderai senza volerlo.

        Non aveva ribattuto, si era già addormentato. O forse faceva finta, chi lo sa.

 

 

Avevamo un appuntamento in montagna, a quei tempi ci muovevamo sempre in montagna, eravamo dei veri e propri partigiani, ma lui era l'unico che sapeva come muoversi anche tra le strade della città. Non era venuto. Trascorso il margine di sicurezza, avevo preso l'autobus per ritornare alla nostra base. La gente parlava di una sparatoria che c'era stata a Tolosa. Le case, le macchine, gli operai, gli occhi di Txabi, miopi come i tuoi, erano sfilati davanti a me come se piovesse all'interno del vetro e, a intervalli, si erano trasformati negli occhi di un ratto che mi sorrideva.

        Avevo raccolto in qualche modo le mie cose come un automa mentre ascoltavo la radio: parlava di due morti, un poliziotto e un giovane non identificato... Senza aver bisogno di ascoltare altri particolari, sapevo che non poteva essere che lui. Trovai un foglio sotto il suo letto, era la sua scrittura. Una frase in francese, sicuramente copiata: «Non saremo portati al cimitero senza prima aver dato a questa schifosa società il castigo che si merita per averci voluto offrire una gioventù vuota.»

        La morte di Txabi per me fu un duro colpo, come se fino ad allora fossi vissuto in un sogno. Quel discorso sull'inutilità di avere il cuore pieno solo di buoni propositi, sul fatto che per arrivare puntuale avesse bisogno di una buona automobile, che dovevamo vincere la scommessa, tutti i suoi scherzi e le sue battute presero un altro significato... Aveva affrontato la vita di fretta, aveva vissuto intensamente ogni momento, adesso direi che aveva la certezza che la sua vita non sarebbe durata a lungo ed era lui stesso a cercare azioni da realizzare ad alta velocità. E' stato il nostro primo morto: pioniere nella penitenza per un peccato necessario. E' arrivato fino all'estremo sacrificio. Per morire, ha ucciso. Come te.

        Non è stata una casualità, io so che non lo è stata. Quando sento dire che è stato tradito da un'imprudenza dico di sì, ma non ci credo. Acconsento silenziosamente al fatto che l'abbiano fermato per eccesso di velocità, ma dentro di me mi ripeto che non è andata così. Lui sapeva, e non solo perché aveva letto molti libri francesi, sapeva com'è difficile vivere essendo condannati a morte. E io, adesso, lo so meglio di lui. Questa è la ragione per la quale era sempre di fretta e preoccupato di non arrivare in tempo; dovevamo compiere una serie di azioni entro un certo termine, non solo con il cuore, ma anche con le mani piene di buoni propositi. Lombroso avrebbe detto che la sua morte era stata un suicidio indiretto. Un suicidio dialettico, direi io oggi, perché c'era una ragione rivoluzionaria in quel dover vivere in fretta. Ho sentito dire che ha utilizzato la lotta come scusa. Anch'io ho dovuto riconoscere che mi aveva utilizzato per mettere alla prova se stesso. Tuttavia, anche nel caso in cui questa fosse la verità, ciò non sminuirebbe la sua grandezza: benché appartenesse a un'organizzazione, la sua vita era guidata dal principio della responsabilità personale. Era uno di noi ma era se stesso e, padrone di se stesso, è morto per darci esempio e coraggio, come un libertario che si immola in un doloroso gesto. Come te, Lilio.

 

 

 

© Koldo Izagirre
© Traduzione: Roberta Gozzi


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