Beste hizkuntzetako lanen zerrenda

  Traduzione: Roberta Gozzi

 

 

 

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Elegante e allo stesso tempo triste è quest'ammasso di pietre nere con presunzione di città. Capoluogo giudiziario di una delle regioni basche arricchitesi grazie all'industria del ferro, acquisì un'importanza tale da meritarsi un carcere. Una prigione di ubriachi e parricidi, una prigione senza scioperi della fame, diremmo oggi. Tu saresti stato il suo primo prigioniero politico. Ma la gente dimentica le storie delle prigioni. Se nomini Bergara l'assoceranno con un bel Sacro Cristo, con le torte ripiene o con l'abbraccio tra liberali e carlisti nel 1839, paradigma del tradimento per i baschi. Tuttavia, ai suoi tempi, Bergara fu famosa sia perché nel suo Reale Seminario fu isolato il tungsteno, sia per essere la città nella cui prigione misero fine alla tua vita.

        Si racconta che quella mattina gli abitanti di Bergara camminassero a testa bassa. Vicino ai portoni c'erano gruppi di donne che mormoravano e chi doveva passare dalla piazza sopra la prigione vi lanciava un timido sguardo. Quella mattina, quella soffocante mattina del 20 agosto del 1897, giorno in cui ti avrebbero giustiziato, Bergara non era più allegra del solito. La casa-torre vicino alla chiesa aveva le finestre chiuse. Me lo raccontò il Signore di Olaso, l'ultima volta che andai a trovarlo prima della sua morte.

        — I miei genitori trascorrevano il mese di luglio alle terme di Sant'Agata, e quando seppero che quel signore con l'asciugamano sulla spalla, che incrociavano tutti i giorni mentre andavano dai bagni alla stanza o dalla sala da pranzo al giardino, era stato ucciso da un giovane italiano, rimasero molto impressionati.

        — In ogni caso, non saranno certo stati dei grandi sostenitori di Cánovas...

        — No, ma sai com'è... quando ti dicono che hanno ammazzato qualcuno che hai avuto vicino... Allora mio padre riunì tutta la famiglia e ci portò a Segura con camerieri e domestiche, in modo che da queste finestre nessuno potesse vedere come uccidevano l'assassino di Cánovas.

        Pur credendo a quelle parole, non è vero che noi baschi non volessimo vederti morire. Ovunque nei paraggi furono noleggiati degli omnibus per venire fin qui, all'alba da Donostia partì un treno speciale per chi voleva arrivare in tempo per assistere alla tua esecuzione. Malgrado le finestre apparissero chiuse, tu fosti il protagonista principale delle feste di San Rocco: un anarchico italiano sul patibolo, una cosa mai vista. Anch'io, durante quella visita, fui costretto dal Signore della Torre di Olaso a ritirarmi dalla finestra. Mi indicò le poltrone della stanza, non ricordo se mi disse che erano stile Luigi XIV o Luigi XV, ma erano di prezioso legno lucidato.

        — Siediti, e aspetta qui finché non torno.

        Ubbidii mentre lui si perdeva nei meandri della casa. Dai rumori mi sembrò che salisse le scale. Aspettai, composto come se fossi stato legato alla sedia elettrica.

        Il Signore di Olaso era ricomparso e mi puntava con una macchina fotografica in mano.

        — Fermo!

        Mi scattò la fotografia e la polaroid iniziò a tirar fuori la sua lingua.

        — Te la regalo come ricordo. Sai dove sei seduto?

        I mobili di quella casa erano stati requisiti per arredare il palazzo che Franco occupava d'estate a Donostia. Morto il dittatore, erano state proprio le fotografie pubblicate sui giornali a permettere alla famiglia Olaso di recuperare quei mobili. Gli dissi che non lo sapevo, per dargli il piacere di raccontarlo.

        — È morto e adesso noi appoggiamo il fondoschiena dove si sedeva lui. Guarda, ha già cominciato a prendere colore. Sei venuto bene!

        Un disgraziato della Louisiana che sta aspettando la scarica di 1.900 volt, ecco cos'ero io, con la testa rigida contro lo schienale e le mani strette ai braccioli. Gli regalai un sì di cortesia. Quel Generalissimo che si era seduto dove io sedevo in quel momento aveva voluto uccidermi. In un oscuro cortile, non alla luce del sole e davanti alla gente. Ma il Signore di Olaso di questo non si ricordava. Quelli che il Generalissimo aveva ammazzato occupano, nella memoria del mio popolo, un posto privilegiato rispetto a quelli come noi a cui, invece, si è dovuta concedere la grazia.

 

 

Per essere un degno erede della tua morte avrei dovuto salire le scale del patibolo sotto il sole e davanti al popolo, come avevi fatto tu, in questo cortile che ora visito da turista mentre aspetto Jean Claude. E' possibile che, mentre salivi le scale del patibolo, tu abbia alzato lo sguardo per un attimo e abbia visto la casa-torre vicino alla chiesa con le finestre chiuse. Avrai pensato che erano in lutto per te? Cosa pensa uno, quando lo invitano a salire sul patibolo?

        Oggi Bergara non ha più la prigione, quel presidio è diventato un archivio troppo grande di vecchi documenti del tribunale. Le sbarre delle anguste finestre potrebbero essere l'unico ricordo di ciò che fu quando sia tu che io ci mettemmo piede la prima volta.

        — Questa è la cella dove fu imprigionato Angiolillo! —mi confessa sottovoce.

        Mi apre la porta, sono i bagni. Mi fa un leggero sorriso, come per chiedere scusa. Qualcuno ti ha voluto riservare uno spazio, un territorio murato che non si perda nell'ampiezza della sala.

        — Le dice qualcosa il nome di Salvador Puig Antich? —questo impiegato municipale è troppo giovane per ricordarsi di lui—. L'ultimo rivoluzionario che la Spagna ha giustiziato con la garrota, un anarchico.

        — Sì, ho letto qualcosa...

        — Nel carcere Modelo di Barcellona, la sala dove lo giustiziarono adesso è la stanza per i colloqui intimi.

        Alcuni prigionieri, pur sapendo dove si trovano, riescono comunque ad eccitarsi durante le visite delle loro donne. Così mi hanno raccontato i compagni che sono passati da lì negli ultimi anni. Anche qui hanno voluto conservare la tua ultima dimora, da quel che sembra, per una certa intimità. Non è una cattiva idea: la cella, in fin dei conti, non è che una latrina, la sala d'attesa del gran canale di scolo.

        Mi avvicino all'angolo della finestra, rimango a fissare la parete. Tutto è ripulito e ridipinto. Il tuo messaggio, che avevo letto quando mi avevano portato qui la prima volta, è stato cancellato. Inutilmente passo le dita sulla parete, non riesco a leggere niente. Rimango a guardare la latrina. Lì, sotto quell'acqua disinfettata, c'è il sadico guardone. In nome tuo gli sputo negli occhi.

 

 

Sulla facciata del cimitero, sulla destra, da quanto si deduce da evidenti segni sotto il cemento, c'è una porta chiusa con dei mattoni. Faccio il giro del muro di cinta. A sinistra c'è un recinto di arbusti, da questa parte del muro. Sembra un orto abbandonato. Un'anziana signora prende il sole seduta su una panchina. Ha gli occhi chiusi e, con la gonna alzata, si scalda le gambe.

        — Mi hanno detto che da queste parti c'è la Porta dell'Inferno.

        Si alza prima di rispondere. Mi offre una mela prendendola dalla borsa di plastica che porta al braccio. La ringrazio ma non l'accetto. La morde con forza, la sua dentatura deve essere naturale.

        — È qui.

        Non c'è nessuno in giro. I ciottoli emettono un sonoro lamento al nostro passaggio. Ci avviciniamo alla porta murata camminando fra le tombe. È uno spazio rubato al cimitero, delimitato da una porta di ferro. All'interno di questo piccolo cimitero speciale c'è un'altra parete, realizzata apparentemente nella stessa epoca e con lo stesso materiale che chiude la porta esterna. Direi che è l'ossario.

        — La Porta dell'Inferno è quella fuori. Adesso è murata.

        — Perché la chiamavano dell'Inferno?

        — Non lo so. Era rossa.

        — L'avranno chiamata così perché era rossa!

        Ride. Mi chiede di seguirla e salgo dietro di lei su per una scalinata di pietra vicino all'entrata principale. È cresciuta l'erba sul tetto delle tombe che restano all'ombra. Ora contempliamo dall'alto quello che prima vedevamo da sotto. Conto cinque teschi. I femori, scarni, assumono dimensioni enormi. Tutto ha il tono grigio-biancastro della cenere. Al centro, come se il corpo avesse voluto alzare la lapide, due gambe pietrificate emergono da un ventre piatto, impudiche al sole, offrendosi a qualche necrofilo.

        — Sotto quelle ossa c'è Angiolillo —sussurra la donna, e dà un altro morso alla mela.

        C'è stato un periodo della nostra storia nel quale siamo stati rossi, storicamente rossi, e tutti i Mussolini hanno giurato che ci avrebbero fatto a pezzi. Per un momento siamo stati degni della tua morte all'interno di una storia straziante: abbiamo perso la guerra, ma sopra le tue ossa sono cadute, ingenue vittime dei pochi fucili che il signore di Olaso aveva potuto comprare in Belgio, le ossa delle camicie nere venute da Foggia per farla finita con gli anarchici di Bergara. La cella si era riempita di nuovi clienti, eri affondato sempre più giù nel pozzo, come trascinato dal grande ratto. Quello che un tempo fu un cimitero civile adesso è un ossario, sala per gli incontri intimi degli scheletri, oubliette, cella della dimenticanza. Ho voluto verificare quello che il signore di Olaso mi aveva detto anni prima.

        — È vero che qui, tutti gli anni, il venti di agosto, qualcuno depositava un mazzo di fiori?

        La donna mi guarda fisso negli occhi. Mi risponde dopo un lungo silenzio.

        — Io vengo tutti gli anni il giorno di Ognissanti, ma non ricordo di aver mai visto dei fiori qui. Tu... Ma io ti conosco! Ho visto la tua fotografia sui giornali, da qualche parte...

        Sorrido. Confesso. E' possibile. Mi prende per il braccio e, prima che possa allontanarmi, pronuncia il mio nome con un sospiro. Faccio cenno di sì con la testa e, impedendomi di avviarmi giù per le scale, con gli occhi pieni di lacrime, mi abbraccia e mi bacia sulle guance.

 

 

 

© Koldo Izagirre
© Traduzione: Roberta Gozzi


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