Beste hizkuntzetako lanen zerrenda

  Traduzione: Roberta Gozzi

 

 

 

—5—

 

Sono salito fino ai quartieri più alti sulle colline attorno alla città, ho camminato senza una meta precisa e senza intenzione di chiedere informazioni alla gente. A dire il vero, una qualunque di quelle povere casupole avrebbe potuto essere la sua casa. Sembra che i vicini non avessero voluto rivelare dove vivesse ai giornalisti che erano venuti a intervistarli nel 1924. Gregorio Mayoral era disoccupato, ed essendo, come in effetti era, un giovane per bene, un avvocato della famiglia lo aveva avvisato di un posto di lavoro che gli avrebbe garantito 1.750 pesetas all'anno, più le spese. Si era assicurato il posto perché era stato trombettiere durante il servizio militare. Queste zone ancora oggi sono povere, di una povertà moderna che le antenne televisive sui tetti di lamiera rendono offensiva.

        — Cerca qualcuno? —mi hanno chiesto con diffidenza.

        — No, vorrei solo una bella vista della cattedrale.

        — E' meglio da là, dall'alto della discarica.

        Sono rimasti ad osservarmi finché non ho scattato la fotografia. Ho guardato l'ora e mi sono incamminato giù per la discesa. Sotto una cunetta, vicino a tre siringhe, ho notato una pietra piatta con una croce in bassorilievo, proprio come diceva l'articolo. Ho scattato un'altra foto incorniciandola con le siringhe. Sì, in quel quartiere era vissuto il tuo boia. A Burgos, nel cuore della Spagna eterna.

 

 

È un edificio freddo, scuro e triste, come deve essere. Mi produce la stessa impressione anche quando vedo la sua facciata nei documentari o in fotografia. Durante il famoso processo del '70, mi ci facevano entrare dal retro, su un furgoncino; in una fotografia diffusa dalla stampa mi si riconosce dietro le sbarre e la rete metallica. Non appena arrivati nei sotterranei della Capitaneria Generale di Burgos, cominciavano i diverbi tra i poliziotti e i militari. Tutti mi volevano sotto la loro custodia, ero uno dei feroci criminali che stavano giudicando in quel processo militare sommarissimo, avrei potuto tentare qualunque violenza, oppure sarebbero potuti apparire criminali più spietati di me per liberarmi... Che cosa ci facevo io, trent'anni dopo, a Burgos, in quella che era stata la capitale del Generalissimo?

        — La settimana scorsa ho chiamato tre volte e per tre volte mi hanno detto che non potevano dirmi né sì né no. Vorrei parlare con qualcuno che abbia l'autorità di dirmi sì o no...

        — Mi dica... —il capitano mi ha restituito la carta d'identità, non avevo con me il permesso per visitare quel luogo, ero venuto invano—. Che cosa cerca uno come Lei in territorio spagnolo?

        — Avrei bisogno di consultare dei documenti.

        — Ma voi non avevate rotto con la Spagna e le sue istituzioni? Non so che cosa ci faccia Lei qui...

        Una volta, quando ero deputato al parlamento spagnolo, mi fermarono alla frontiera di Irun-Hendaia, tra Francia e Spagna. Mi si avvicinò un tenente della Guardia Civil per restituirmi il passaporto e, battendo i tacchi, mi disse: «Benché Lei non lo voglia, Lei per me è un'autorità. Ai suoi ordini!»

        Ma non volevo giocare al livello che mi proponevano quel tenente e questo capitano.

        — Vorrei consultare l'archivio.

        — Come fa a sapere che qui c'è un archivio? Per quanto riguarda il suo caso può chiedere al suo avvocato, inoltre... è stato tutto pubblicato in più di un libro.

        — So che c'è qui un archivio e so che in quell'archivio c'è quello che io cerco. Non è come crede Lei.

        — Di cosa si tratta? —la risposta significava che avevano davvero un archivio.

        — Il rapporto sulla morte del signor Cánovas del Castillo.

        — Certo, certo! Lei sta facendo una tesi sull'omicidio di un personaggio illustre? Come si chiamava quell'anarchico...?

        — Angiolillo, Michele Angiolillo —eri tu la ragione che mi riportava nel luogo dove mi avevano condannato a morte.

        — Lei vuole esaltare la figura di Angiolillo, chiaro.

        — Posso consultare l'archivio?

        — Qui non c'è. Sarà nel tribunale di Bergara. Fu lì che si tenne il processo militare, se non mi sbaglio.

        — No, lì non c'è. So che è qui.

        — Anche noi abbiamo studiato quell'attentato all'Accademia... Fu un'azione decisamente organizzata meglio di che quelle che ha realizzato Lei!

        L'ho guardato negli occhi con la stessa aria di sfida. Avrei forse dovuto ricordargli che mi avevano condannato a morte? Avrei dovuto dirgli che la mia morte sarebbe stata la mia miglior azione?

        — Vorrei vedere i documenti relativi a quel caso. Se non mi è permesso di copiarli, vorrei almeno poterli leggere.

        — Nemmeno io posso darle o negarle il permesso di accedere a questo presunto archivio. Non dipende da me: dovrebbe parlare con qualche tenente colonnello. Vada all'Archivio Storico Militare, forse lì avrà più fortuna.

        Le ginocchia mi tremavano ancora quando sono arrivato in centro. Ero intirizzito dal freddo, ma una lingua di fuoco mi incendiava lo stomaco. Dopo aver ordinato una birra gelata mi sono seduto senza aspettare, non sarei stato in grado di portare il bicchiere al tavolo senza rovesciarne il contenuto. Il barista ha appoggiato la birra sul banco. Il bar non aveva camerieri e lui era impegnato a seguire la corrida in televisione. La birra ha aspettato vari minuti, come una candela che si consuma in lacrime. Dovevo calmarmi. Ero stato ad un soffio dall'essere ammesso a piedi e libero all'interno della Capitaneria Generale di Burgos, e il fatto che non me l'avessero concesso mi aveva posto davanti alla terribile eventualità che ciò potesse accadere. Era come se avessi voluto fare l'amore nella cella destinata alla mia esecuzione. Perché ero caduto in quella trappola? Che cosa aveva da imparare in quel posto uno che era stato condannato dagli stessi militari che avevano condannato te? Che cosa me ne importava della trascrizione a verbale del tuo processo? Che novità avrei scoperto in quella farsa che era durata mezz'ora? Lo stesso divieto, imposto alla stampa, di rendere pubbliche le tue dichiarazioni, non mi rivelava chiaramente da che cosa e da chi ti eri difeso, quali erano state le tue parole? Non ero andato lì per te, Lilio, a cercare le parole che coloro che ci hanno condannato, cento anni dopo, continuano ad nascondere. Ci ero andato per me, per dimostrare a me stesso che ero ancora degno di essere stato processato in quel luogo.

 

 

Sotto un gran crocifisso di legno appeso alla parete del tribunale si vedevano i giudici. Decorati, inguantati, avvolti nelle toghe nere. Sul banco, tra due spade, un altro crocifisso di metallo su un piedistallo di pietra ovale. Pubblico Ministero, giudice difensore, croci, spade, tutti con la piena consapevolezza che si stava celebrando un processo storico. In un angolo del tavolo coperto da un tappetino amaranto c'era un telefono, vicino ad una bottiglia di acqua minerale e ad alcuni bicchieri capovolti. Lo ricordo ancora, vedo una panca a destra per i giornalisti, ci sono dei fogli su dei tavolini. Ne lasciano entrare solo alcuni. I banchi portati dalla chiesa per il pubblico sono pieni di militari e i pochi non in divisa si sono solo cambiati d'abito, li tradisce il baffetto fascista. Poliziotti armati, in piedi ai quattro angoli della sala, controllano la porta per il pubblico. Sono seduto sulla sedia che sta a sinistra della corte, di fronte al vecchio microfono, le mani ammanettate davanti, mi sono rifiutato di chiedere un avvocato. Avvicinati a me, Lilio, parla al posto mio.

        — Ho potuto vedere le torture inflitte a Montjuich, a Londra ho ascoltato i racconti di Francisco Gana e di Cayetano Oller, non avevano più le unghie, il corpo fatto a brandelli...

        — Siamo qui per giudicare Lei. Se prosegue così sarò costretto a toglierle la parola.

        — Mi perdoni, Signore, ho dovuto ammazzare per potere prendere la parola!

        — Che cosa dice?

        — Il mio gesto me ne dà il diritto.

        — Il suo gesto l'ha portata davanti a un tribunale. Perché ha ucciso quell'uomo?

        — Io non ho ucciso nessun uomo.

        — Non è forse stato Lei ad assassinare il signor Antonio Cánovas del Castillo?

        — Io ho giustiziato un criminale.

        — Perché ha ucciso il nostro Primo Ministro?

        — Volevo vederlo morto.

        — Nella prima dichiarazione Lei ha detto di aver ucciso il signor Cánovas per vendicare i suoi fratelli.

        — L'ho giustiziato anche per vendicare tutti i fratelli torturati ed assassinati. Ho vendicato tutti coloro che a Cuba e nelle Filippine lottano per la libertà.

        — Lei ha ucciso un politico di gran valore, ma qualcun altro prenderà il suo posto.

        — Anche dopo di me verrà qualcun altro.

        — Questo crimine non fa molto onore alle sue idee.

        — La mia azione non è ancora finita.

        — Ci sta minacciando?

        — Io, per un momento, ho avuto la Storia in mano. E l'ho spezzata.

        — Lei ha ucciso un uomo, non un regime. Se avesse annientato un regime oggi forse Lei sarebbe un eroe.

        — Lei avrebbe preferito che uccidessi la regina madre o l'erede al trono?

        — Siamo noi che facciamo le domande!

        — Io ho fatto a pezzi l'ideologia della Corona. Ho distrutto la Spagna coloniale, ho annientato il presidente dell'Inquisizione.

        — Quello che Lei ha fatto è un solo un crimine.

        — Alcuni atti della giustizia sono crimini; alcuni crimini sono atti di giustizia.

        — Lei si sbaglia, i crimini sono puniti dalla giustizia.

        — Mi ammazzerete, ma ammazzandomi diffonderete l'idea.

        — Se la condanneremo a morte o no, lo saprà quando verrà emessa la sentenza, non prima.

        — Voi potete solo uccidermi.

        — Come fa a saperlo?

        — Voi non avete potere sulla mia vita, voi non potete darmi altro che la morte. La storia non si interrompe.

        — Siamo qua per far rispettare la Legge.

        — Non vi è data la possibilità di non uccidermi.

        — Siamo giudici ed agiremo secondo giustizia.

        — Voi non potete fare altro che il vostro lavoro di boia.

        — Sembra che Lei sia pentito, vuole forse espiare il suo gesto con la morte?

        — La mia morte darà ancora più senso al mio gesto.

        — Pertanto, Lei si dichiara colpevole.

        — Sono un martire.

 

 

Il tenente Carlos de la Escosura mostrava un'eleganza che pochi Pubblici Ministeri hanno, non argomentava la sua requisitoria senza guardare l'accusato o lanciandogli sguardi di disprezzo in base al testo che stava leggendo, non alzava la voce, non gesticolava, non enfatizzava con toni retorici. Il suo intervento era semplice, chiaro, monocorde. E molto efficace in un tribunale militare: era un codice d'onore vivente. Si alzò tenendo in mano alcuni foglietti. Era magro e ancor più magro lo facevano apparire le maniche troppo corte della toga. Parlò dal suo posto, rivolgendosi a turno a tutti i presenti. I foglietti facevano parte della sua immagine, non li consultava mai.

        — Credo che a conclusione di questo processo sia risultato evidente che il signor Michele Angiolillo Lombardi ha commesso un omicidio premeditato contro la persona del signor Antonio Cánovas del Castillo, e considerando la qualità della vittima, ossia il Presidente del Governo, credo che questo crimine sia da considerarsi un attentato contro l'autorità. Se l'importanza della vittima non fosse sufficiente a dimostrarlo, le dichiarazioni dell'accusato hanno ben evidenziato su cosa si basa l'ideologia che ha guidato la sua mano: la distruzione di ogni autorità. Non ha utilizzato dinamite, è vero, ma il suo reato è rubricato all'articolo primo della legge per la repressione dell'anarchia. Pertanto, senza attenuante alcuna ed in base agli articoli 418, 224, 90 e 33 del codice penale, chiedo per l'accusato la condanna alla pena di morte e, per via civile, il pagamento di 30.000 pesetas alla vedova del signor Cánovas, a titolo di indennizzo.

 

 

Il tenente Tomas Gorria non era a suo agio. Era la prima volta che difendeva un assassino, fino ad allora non si era occupato che di qualche soldato ubriaco che aveva infranto la disciplina della caserma, viveva tranquillo in una provincia pacificata, finché non sei arrivato tu.

        — Vorrei il suo permesso... Ho pensato di cambiare strategia. Se Lei non si pente per l'omicidio del Primo Ministro, credo che la cosa migliore sia chiedere il riconoscimento dell'infermità mentale.

        — Faccia come crede, ma è inutile.

        — Devo difenderla.

        — E Lei, davvero pensa che io sia pazzo?

        Tacque, gliene fosti riconoscente. Non volevi continuare con un'argomentazione assurda. Finita la pausa di sospensione e quando i giudici, le guardie, i testimoni, i giornalisti, il pubblico avevano di nuovo preso posto in sala, mentre si chiudeva la porta, una gamba si intromise dall'esterno e, in seguito alla spinta della guardia, la gamba si staccò dal ginocchio. Un uomo vestito di stracci, raccolta da terra la sua gamba di legno, minacciò gli agenti, traballante. Non capivano le sue parole, parlava in basco, e l'uomo nemmeno li guardava, alzava lo sguardo verso di te.

        Un sottotenente, membro del tribunale, si avvicinò alla porta.

        — Che cosa succede qua, guardia, cos'è questo disordine?

        — Questo contadino voleva entrare...

        Lo zoppo allungò un foglio al sottotenente. Questi lo aprì, lo lesse.

        — Rimanga qua, fermo e in silenzio!

        Ritornò verso i giudici, consegnò il foglio al Presidente che lo lesse senza mettersi gli occhiali. Notasti che dicevano qualcosa tra loro e alla fine il sottotenente ritornò verso la porta. Restituì il foglio al disgraziato che era ancora lì con la sua gamba in mano e con un gesto arrogante gli impose di ritirarsi. Le guardie lo spinsero fuori e si chiusero le porte. Sicuramente sarà caduto scendendo le scale, a meno che gli agenti sul pianerottolo non l'abbiano portato giù di peso. L'immagine di quell'uomo occupò la tua mente distraendoti dagli sforzi in cui si prodigava il tuo difensore.

        — Signori, Loro hanno potuto ascoltare come me le dichiarazioni dell'accusato e credo che, come me, saranno rimasti esterrefatti davanti alla freddezza del mio assistito. Perché, Signori, l'uomo che oggi noi giudichiamo pretende di aver fatto un favore alla società, con il crimine che ha commesso. Così ha dichiarato, senza ombra di dubbio. Le sue parole, mostruose, provocano in noi un profondo sdegno. E se prendiamo in considerazione l'importanza della vittima, si accentuano in noi sentimenti come la rabbia, l'indignazione, l'odio. Ma, Signori, dopo una prima reazione, cerchiamo di capire quel che sembra incomprensibile. E per farlo avviciniamoci a questo giovane. Perché quello che abbiamo di fronte a noi è un giovane, direi addirittura un bambino. Potremmo chiederci: da dove provengono quelle parole, le aberranti considerazioni che abbiamo sentito pronunciare dalle sue labbra? Sono prodotto della sua mente? Ho detto che siamo davanti ad un giovane, davanti ad un bambino e pertanto davanti ad una mente non matura; ho piena convinzione di ciò. Ho la piena convinzione che le sue parole siano il prodotto di letture inopportune, indotte da spiriti più incattiviti del suo. E queste letture, queste conversazioni, hanno portato alla pazzia l'uomo che oggi giudichiamo. Secondo la sua teoria, il signor Antonio Cánovas del Castillo era il responsabile di quello che altri avevano fatto a Montjuich. Da ciò possiamo dedurre che anch'egli può non essere responsabile dei suoi gesti. Per questo motivo, mi appello a Lor Signori affinché non prendano in considerazione una sola parola di quanto l'imputato ha dichiarato, perché egli non è stato che il braccio mentre la mente stava, e sta, altrove. Le nuove dottrine che pretendono di emancipare, col messianismo, la classe lavoratrice dalla sua condizione(,) hanno bisogno di martiri e per questo si servono di giovani impulsivi ed ingenui, portandoli alla pazzia. Tengano in conto, Signori, che questo giovane, questo bambino, non è padrone di se stesso. Chiedo clemenza.

 

 

— Ha l'accusato qualcosa da dichiarare?

        Avevo deciso che avrei parlato rimanendo seduto, proprio come si rivolgevano a me coloro che pretendevano di giudicarmi. Ma ero nervoso e il mio corpo si alzò prima che riuscissi a ordinargli di non farlo. Ormai non potevo più sedermi, forse così mi avrebbero sentito meglio. Un usciere mi avvicinò il microfono.

        — Signori, da parecchi anni io seguo attentamente gli eventi d'Europa. Ho studiato la situazione della Spagna e delle varie nazioni che le stanno vicino: Portogallo, Francia, Italia, Svizzera, Belgio, Inghilterra. Le mie occupazioni e le mie simpatie mi hanno messo in contatto continuo con la popolazione laboriosa e povera di questi paesi. Dappertutto ho incontrato lo spettacolo doloroso della miseria. Dappertutto ho inteso gli stessi lamenti, ho visto scorrere le stesse lacrime, ho sentito agitarsi le stesse rivolte, sorgere le stesse aspirazioni. E dappertutto ho constatato presso i ricchi ed i governi la stessa durezza di cuore, lo stesso disprezzo delle vite umane. Queste osservazioni generalizzate mi hanno condotto ad odiare le iniquità che pesano sulle società umane e che ne sono la base. Degli uomini ardenti, energici, innamorati della giustizia si sono incontrati con me sulla via della rivolta. Questi esseri che l'ingiustizia indigna e che aspirano ad un mondo di armonia e benessere, sono gli anarchici. Io ho simpatizzato con loro e li ho amati come fratelli. E tutto d'un tratto ho appreso, insieme al pubblico inorridito che in questa terra di Spagna, terra classica dell'Inquisizione, la schiatta dei torturatori non era morta. Ho saputo che centinaia di esseri umani, chiusi in una fortezza ormai tristemente celebre, vi subivano le peggiori torture. Ho saputo che si erano rimessi in vigore, con quell'aumento di raffinatezza che il progresso scientifico porta con sé, tutti i procedimenti dei carnefici del Medioevo. Ho saputo che cinque di questi uomini erano stati assassinati, che altri settanta erano stati condannati a pene severe, che quelli di cui si era dovuta riconoscere l'innocenza erano colpiti da bando, e che tutti questi esseri erano anarchici, o considerati come tali.

        — Il Governo ha aperto un'indagine e se è stato commesso un reato i responsabili saranno puniti. Non capisce che al Governo non interessa che si macchi il suo buon nome?

        — È vero, o Signori, mi sono detto che tali atrocità non dovevano restare impunite e ho cercato i responsabili. Al di sopra dei gendarmi facenti funzione di carnefici, degli ufficiali facenti funzione di giudici, tutti eseguivano degli ordini, io ho visto colui che questi ordini dava.

        — Non le è permesso attentare all'onore dei giudici...

        — Signori, ho sentito nel fondo del mio cuore un odio invincibile contro quest'uomo di stato che governava col terrore e con la tortura, contro questo ministro che mandava al macello migliaia di giovani soldati, contro questo potentato che riduceva alla miseria, schiacciandolo sotto le imposte, questo popolo spagnolo che potrebbe essere tanto prospero in un paese così fertile e ricco, contro quest'erede dei Caligola e dei Nerone, questo successore di Torquemada, quest'emulo di Stambuloff e di Abdul-Hamid; contro questo mostro di cui io son felice e fiero di aver sbarazzato il mondo: Cánovas del Castillo!

        — Il suo discorso non è che una scusa per occultare il crimine. Concluda, per favore.

        — E' forse una cattiva azione abbattere una tigre sanguinaria i cui artigli lacerano dei petti, le cui mascelle stritolano delle teste umane? È un delitto schiacciare il rettile dal morso mortale? Per la carneficina fatta, la mia vittima era da solo più che cento tigri, più che mille rettili. Essa personificava, in ciò che hanno di più ripugnante, la ferocia religiosa, la crudeltà militare, l'implacabilità della magistratura, la tirannia del potere e la cupidigia delle classi possidenti. Io ne ho sbarazzato la Spagna, l'Europa e il mondo intero. Ecco perché io non sono un assassino, ma un giustiziere!

        — Ha finito?

        Io non ero ormai più me stesso, eri tu, Lilio, le braccia tese sopra la testa, i pugni ben chiusi. Ero te, Lilio, triste esiliato, affettuoso fratello, angelo della speranza alzatosi contro il trono e l'altare per inorridire la Capitaneria Generale di Burgos.

        — Voglio essere fucilato a Montjuich!

        E dalla rabbia che mi ammutoliva sorse la calma, le nostre voci si unirono meravigliosamente. Eravamo sdraiati nei campi di Foggia, sognavamo:

 

                «Quando l'anarchia verrà

                tutto il mondo sarà trasformato»

 

        Così immagino adesso quel mio processo, come se avessi fatto mia la tua difesa e come se le tue ragioni potessero essere riassunte in quelle poche parole che ho gridato:

        — Viva i proletari del mondo!

 

 

 

© Koldo Izagirre
© Traduzione: Roberta Gozzi


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