Beste hizkuntzetako lanen zerrenda

  Gran Via Edizioni / Milano
  Traduzione: Roberta Gozzi

 

 

 

FERMIN

 

— He died last night.

        Quando il telefono squillò, Fermin si trovava nel suo studio di Donostia e stava cercando di capire come affrontare il caso di un paziente. Convinto che fosse Alizia, sua moglie, che era solita chiamare sempre verso le undici del mattino, alzò il ricevitore con un gesto meccanico e senza distogliere lo sguardo dalle parole della cartella clinica.

        — Sì, pronto?

        — Hello, my name is Marc — rispose una voce dall'altra parte, suscitando in Fermin una certa inquietudine — I was a friend of Carlos Urretabizkaia.

        «Carlos Urretabizkaia, Carlos Urretabizkaia...» Fermin cercò nella memoria, mentre la sensazione di conoscere quel nome si faceva sempre più forte. Si morse il labbro inferiore e i suoi occhi si persero nella stanza. Il divano azzurro, scelto da Alizia; il tappeto costoso, acquistato da Alizia; le maschere ieratiche trovate in Sudafrica da Alizia durante il viaggio di nozze; il gigantesco posacenere di vetro, regalo della madre di Alizia. In quel luogo niente era suo. Carlos Urretabizkaia. Toccò il vetro. Un brivido lungo il corpo fino alle tempie.

        «Bazter, cazzo, il nome di Bazter è Carlos Urretabizkaia, anche se nessuno, a parte sua madre, l'ha mai chiamato così».

        — I was a friend of Carlos Urretabizkaia — ripeté la voce, apparentemente impaziente dopo il lungo silenzio. —Carlos Urretabizkaia — aggiunse, come se ripetere il nome di Bazter potesse aiutare Fermin a capire.

        — Yes — disse con non poche difficoltà Fermin, cercando di dimostrare che aveva capito.

        Fu allora che udì le parole che lo lasciarono di sasso: «He died last night». È morto ieri.

        All'inizio non riuscì a collegare «Carlos» e «he», cosa che gli succedeva spesso quando parlava in inglese; ma all'improvviso l'idea si fece strada nella sua mente e capì: Bazter era morto.

        Udì le parole che seguirono come se venissero da molto lontano: aveva trovato il numero di Fermin nell'agenda di Carlos, il funerale sarebbe stato dopodomani, alle sei del pomeriggio, forse qualcuno voleva andarci.

        Scrisse l'indirizzo come gli fu possibile su un pezzo di carta e riattaccò, dopo aver mormorato un timido good bye.

        «Cazzo! Bazter è morto!» Bazter, un amico del paese, un compagno di gioventù, quello che aveva avuto al suo fianco quando per loro il mondo era giovane e volevano ribaltarlo e costruirne uno nuovo; «volevano, appunto», precisò Fermin a se stesso, con la faccia ironica di Alizia, sua moglie, in mente. Com'erano ingenui! Più tardi Alizia gliel'avrebbe addirittura rimproverato: «Patetici eroi di cartapesta, credevate che i vostri ideali di gioventù fossero quelli di tutti e non avete fatto altro che combinare guai». Fermin sollevò il ricevitore e si rese conto che stava per fare quel che sempre faceva nei momenti di indecisione. No. Alizia non avrebbe capito l'ansia che aveva in corpo, Alizia non voleva nemmeno sentir parlare di quel vincolo —secondo sua moglie endogamico— che, come un ferreo cordone ombelicale, lo univa al suo paese, Lekunberri Aranaz, e al suo passato. Prese una matita. Ribolliva in lui un senso di colpa, come se avesse avuto qualcosa a che fare con la morte di Bazter. Accarezzò la punta della matita per sentire il calore del legno. Cercò di respirare profondamente. Tranquillo. Alzò gli occhi: il divano azzurro, il tappeto costoso, le simpatiche maschere africane, l'enorme posacenere di vetro. Il passato gli apparve come un lotto di terreno abbandonato. Pareti crollate, rovi ovunque, calcinacci, rifiuti, tutto bruciato da odi e rancori. Si obbligò a credere che il presente fosse meglio, con il vivo desiderio di lasciarsi indietro, molto indietro, quello spazio del suo passato. Bazter è morto.

        Avrebbe chiamato Harakin («il macellaio», per il mestiere di suo padre). Alzò il ricevitore e compose il numero di Esti e di Harakin, mentre consultava l'elegante orologio che sfoggiava al polso, scelto da Alizia; erano le undici e mezza. Sicuramente Harakin stava lavorando nella macelleria dei suoi genitori, ma forse Esti era in casa e lei gli avrebbe potuto dare il numero. Ascoltò nervoso il suono ritmico, troppo prolungato, che gli annunciava che in casa non c'era nessuno. Nessuno. «Come sempre: quando servono, non ci sono».

        Dalla grande finestra del suo studio si poteva vedere il cielo coperto sul quartiere di Amara: stava piovendo, come ormai da giorni in quell'autunno troppo caldo. Era stato proprio per quella finestra che aveva deciso di affittare quell'ufficio: per poter vedere il cielo e, mentre esaminava i casi dei suoi pazienti, poter assaporare nelle volute del fumo della sigaretta la pace di cui sempre più spesso aveva bisogno; fu ciò che disse ad Alizia, sperando che la metafora le facesse dimenticare l'oneroso affitto, visto che era lei a occuparsi dei conti di casa, e lo faceva con rigore.

        Decise di prendersi il giorno libero e di recarsi al suo paese. Portò di nuovo il ricevitore azzurro all'orecchio e chiamò Alizia; probabilmente era già a casa, dopo aver portato Maialen ed Eneko a scuola ed essere passata dal mercato.

        — Senti, Alizia, non verrò a pranzo, mi ha chiamato la moglie di un paziente e siamo d'accordo di mangiare qualcosa assieme. Chi è? Quello di cui ti ho parlato, che ha problemi sessuali. Sì, quello di Anoeta. Mi ha chiamato sua moglie, è molto preoccupata e ho pensato che avremmo potuto pranzare assieme; sai com'è, dandole un po' di confidenza, penserà che più che lo psicologo io sia un amico e in questo modo, forse, si lascerà coinvolgere nella cura di suo marito. Ti ricordi come ce lo ribadiva il professore di Psicopatologia? La guarigione è una questione di fiducia... — si zittì, timoroso di provocare i sospetti di Alizia con le sue complicate scuse. — Sì, ci vediamo stasera. Sì, porto io Eneko in piscina. A dopo, tesoro.

        Annullò l'appuntamento delle cinque, l'unico che aveva quel pomeriggio, si alzò, prese il soprabito verde, regalo di Alizia — «non ti piacerà, ma è ora che tu inizi a vestirti per quello che sei», gli aveva detto quando gliel'aveva regalato — e uscì. La sua immagine nelle vetrine rifletteva una certa eleganza, cosa di cui non si vergognava, anche se spesso gli pareva di avere un aspetto troppo formale, gli sembrava di rappresentare un ruolo non suo, di fingere di essere ciò che non era. Ma in ogni caso non contraddiceva mai Alizia, forse perché aveva disperatamente bisogno di superare quel «passato di rosso da quattro soldi», come lo definiva sua moglie.

        Una goccia di pioggia gli scese lungo il collo. Sentì freddo. Con un gesto rapido si alzò il bavero del soprabito. Si ricordò della visita che aveva fatto a Bazter due anni prima. Non gli aveva dato l'impressione di non star bene, solo un po' invecchiato e con qualche capello in meno; stava succedendo a tutti: erano più vecchi e, inoltre, contrariamente alla credenza generale, non erano più saggi. Tra loro c'era meno attenzione e meno affetto, altrimenti avrebbe saputo che Bazter era malato. L'avrebbe saputo, ed era sicuro che nemmeno Harakin, Esti o Jexus Mari ne sapessero qualcosa. Cercò di capire ciò che la notizia della morte di Bazter provocava dentro di lui. Ma gli appariva solo quell'immagine: pareti crollate, rovi ovunque, macerie.

        Nelle rare occasioni in cui si recava a Lekunberri per far visita ai suoi genitori, Harakin lo prendeva in giro con la rudezza di sempre: «Da quando te ne sei andato a vivere in città, non si sa nulla di te»; ma lui sapeva perfettamente che il problema non era di spazio ma di tempo. Il loro rapporto — il rapporto tra Harakin, Jexus Mari, Esti e Bazter — ormai non era nient'altro che un mucchio di macerie, resti, residui. Qua e là affioravano alcuni ricordi — Fermin cercò l'aggettivo adeguato — alcuni bei ricordi; però la verità era che, da quando si era trasferito a Donostia, più di una volta si era rallegrato che la sua relazione con Harakin non fosse altro che un mucchio di macerie — «grazie a me», piaceva dire ad Alizia.

        Azionò con uno strano gesto il telecomando di apertura della macchina. Anche quella era stata una decisione di Alizia. «Compreremo un'Audi A4», aveva detto lei senza dargli nemmeno la possibilità di esprimere il suo parere. «Audi A4» aveva ripetuto, ribadendo che la cosa era decisa. Il denaro non lo menzionò nemmeno; in realtà con le misere entrate che gli garantivano i suoi pazienti sarebbe stato assai difficile pagare un'Audi A4, ma era chiaro che la famiglia di Alizia avrebbe continuato tutti i mesi, anche dopo il matrimonio, a rimpinguare il loro conto corrente. Finché era scapolo aveva accettato senza problemi i loro regali, le cene e tutto il resto, ma una volta sposati, furioso perché continuavano a versare denaro sul loro conto, le ordinò di non accettarne altro. Alizia ovviamente non gli prestò la minima attenzione, come quasi sempre; il peso che aveva sulla coscienza si alleggerì a poco a poco, si rendeva conto che con Alizia era impossibile spuntarla.

        Non era mai stato un appassionato di automobili di lusso, come invece lo era Harakin, ma quando ad Andoain imboccò l'autostrada per la Navarra, schiacciò l'acceleratore fino in fondo. Sicuramente sua madre sarebbe stata contenta di vederlo. Erano due mesi che non andava a Lekunberri; la chiamava regolarmente una volta alla settimana, ma andava a trovarla di rado, malgrado le sue rimostranze. Poi pensò a suo padre ma, esattamente come aveva fatto con suo fratello, scacciò rapidamente il ricordo di quella figura che non suscitava in lui altro che due parole: «schifoso ubriacone».

        Pensò che non aveva chiamato per dire che sarebbe andato a pranzo. Prese il cellulare e compose il numero di sua madre mentre l'auto procedeva a centottanta all'ora.

        Preferiva non pensare; secondo alcuni psicologi, maturare significa trovare un luogo e un'unica interpretazione per i conflitti ancora in sospeso e irrisolti. Per lo meno alla famiglia aveva dato un posto, e che posto: colmandola da lontano di una tenerezza che non riusciva a essere amore, le aveva trovato una collocazione nella geografia dei suoi sentimenti. Soprattutto per quel che riguardava sua madre e suo fratello; nel caso di suo padre si era limitato alla distanza, di fronte all'impossibilità della tenerezza. Anche in questo Alizia l'aveva aiutato, tuttavia si chiedeva sempre più frequentemente se per quell'aiuto non stesse pagando un prezzo troppo alto; scacciò quel pensiero con il gesto di chi cerca di disperdere il fumo davanti agli occhi. E gli amici? Che posto occupavano gli amici in quella geografia? Harakin, per esempio, era una figura lontana, immobile, o gli girava ancora intorno, innervosendolo profondamente e suscitandogli odio? E Bazter? L'avevano appena perso, l'aveva appena perso, avrebbe dovuto dire; ma forse sarebbe stato meglio dire che era appena morto e basta, pensò Fermin. Tuttavia Bazter, benché fosse sparito in Inghilterra, faceva comunque parte del paesaggio; qual era il suo posto? Anche quella figura lontana lo tormentava?

        Quando entrò nella valle di Barranka gli si allargò il cuore; prima, quando viaggiava tra Beriain e Aralar, la valle non gli sembrava bella; il suo paesaggio preferito era sempre stato la baia di Donostia. Ma da quando Bazter, a Londra, gli aveva detto che la valle di Barranka era il posto dove avrebbe voluto vivere, aveva iniziato a guardare il paesaggio con altri occhi. E pensò che quel che stava provando in quel momento era la stessa sensazione che aveva provato Bazter le poche volte che era tornato in paese da quando se n'era andato a vivere a Londra.

        Era tutto molto secco, ma comunque bellissimo. I dintorni di Beriain erano brulli; nella zona di Aralar, invece, si mescolavano il marrone e il verde, assieme al grigio azzurrognolo delle rocce. Percepì il movimento dell'automobile in quel paesaggio. Si morse il labbro. Lo vide brillare, inumidito, nello specchietto retrovisore. Per un momento si sentì potente, lì, in autostrada a centosessanta chilometri all'ora.

        Sua madre lo aspettava con un piatto di verdure in tavola, ovviamente conosceva bene la sua predilezione per la verdura da quando, verso i diciannove anni, suo figlio e Bazter avevano deciso di diventare vegetariani, con grande dispiacere di suo padre e provocando in casa più litigi del necessario; a suo padre quella faccenda di non mangiare carne pareva proprio una cosa da froci. «Con voi, con gente come voi non c'è niente da fare!», era solito dire, come se con lui, un disgustoso ubriacone che aveva fatto soffrire sua madre fino alla tortura, sì che sarebbe stato possibile farci qualcosa.

        Il bacio dato a sua madre allontanò tutti quei pensieri, mentre con la coda dell'occhio cercava di capire se suo padre fosse lì o no. Sua madre se ne rese conto e disse: «Non è in casa», facendo con il capo un cenno di rimprovero. Fermin, vergognandosi di essere stato colto in fallo, non rispose. Si sedette mentre la donna, in piedi, iniziava a fargli domande:

        — Come stanno Eneko e Maialen?

        — Bene, adesso saranno a scuola.

        — E voi? Voi come state? — chiese sua madre, rivelando la sua tendenza alla retorica.

        — Bene. Tutto bene, come sempre. Bazter è morto — le disse all'improvviso.

        — Chi è Bazter?

        — Bazter, mamma. Carlos, quello del Bazterretxea.

        — Gesù, Giuseppe e Maria! — disse la donna mentre si faceva il segno della croce.

 

 

© Juanjo Olasagarre
© Traduzione: Roberta Gozzi


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