Beste hizkuntzetako lanen zerrenda

  Gran Via Edizioni / Milano
  Traduzione: Roberta Gozzi

 

 

 

JEXUS MARI

 

Appena usciti dall'aeroporto londinese di Heathrow, Jexus Mari osservò Fermin che si avvicinava a un taxi e porgeva all'autista il foglio su cui aveva scritto l'indirizzo. Il tassista assentì con il capo. A scuola aveva imparato un inglese sufficiente per farsi capire, ma non aveva intenzione di fare nessuno sforzo per dialogare con i britannici. «Né con loro, né con quell'imbecille di Harakin», aggiunse mentalmente. Nel tragitto da Bilbao a Londra, Harakin lo aveva fatto sedere vicino a lui e non aveva smesso un attimo di parlare durante tutto il viaggio: Bazter aveva fatto questo, Bazter aveva fatto quell'altro, come se gli altri non fossero amici di Bazter. E forse in realtà non lo erano, così come gli aveva detto Fermin in aeroporto quando Harakin era andato in bagno.

        Non sapeva bene perché si trovasse lì, e cominciava a pentirsene; non per Bazter, no, ma per il fatto di dover passare due giorni interi con Harakin. Quando si sedette sul sedile posteriore del taxi tra Harakin e Fermin, promise a se stesso che avrebbe portato pazienza.

        Poteva immaginare la vita della città che pulsava dietro le facciate di mattoni rossi, come se si trattasse di un cinghiale spaventato, con il respiro affannoso, nascosto nel piccolo regno dei boschi di Urbasa-Andia.

        Iniziava a far buio. Le strade sembravano vene in cui si incanalava il traffico; si vedeva poca gente, qualche pedone di ritorno a casa con il bavero del cappotto alzato, persone che contemplavano le vetrine come se stessero pregando. Una donna nera cercava qualcosa all'angolo di un marciapiede, una scrofa che ha perso i suoi cuccioli; Harakin non smetteva di parlare e il peso delle sue parole si abbatteva sulla leggerezza che invece gli trasmettevano le automobili; Jexus Mari guardò alla sua sinistra e, sul vetro, vide la sagoma sfumata di Fermin che guardava dal finestrino cercando di sfuggire la verbosità di Harakin. Poi guardò alla sua destra e si imbatté nell'ombra di Harakin, un pozzo scuro che copriva tutto con parole vane.

        Harakin parlava di quei tempi come se Jexus Mari e Fermin non sapessero che, allora, erano soliti andare da un paese all'altro, di festa in festa. Raccontò che una volta era andato con Bazter alla festa di Usurbil e che, essendo arrivati là all'ora di cena, avevano deciso di andare a una sidreria, perché per strada non c'era nessuno e perché lui, Harakin, non era mai stato in uno di quei locali; avendo già cenato, avevano pensato che la cosa migliore fosse chiedere solo il dessert: formaggio, cotognata e noci; ma poi, invece, avevano chiesto una costata e, siccome ormai stavano cenando, avevano pensato di concludere con una frittata di baccalà. Tra una battuta e l'altra, Bazter aveva proposto agli altri di andarsene senza pagare; «Io fui subito d'accordo», aveva continuato Harakin.

        Harakin non smetteva di parlare, la vita nascosta dietro il bosco di case di mattoni rossi continuava ad ansimare. Anche Jexus Mari era lì, a Usurbil, quando era successo quello che Harakin stava raccontando: c'erano tutti e tre, e non solo Bazter e Harakin, come aveva detto quest'ultimo; e in realtà era stato a lui, a Jexus Mari, che era venuto in mente di andarsene senza pagare, non sa il perché, forse solo perché gli era sembrato divertente; era stato lui a proporlo a Bazter che aveva immediatamente risposto di sì; Harakin, invece, si era ostinatamente opposto finché Bazter, con quella radicalità di cui faceva mostra in certe occasioni, gli aveva detto che se non usciva con loro avrebbe dovuto pagare la cena a tutti. Era stato Harakin ad accendere la macchina e ad aspettare che gli altri due uscissero dal locale. Sentì una goccia di sudore scorrergli dall'ascella fino alla camicia. La rabbia attraversò il suo petto come un cavallo al galoppo.

        — Deve sempre essere lui l'eroe — pensò ma, rendendosi conto che era un commento tipico di Fermin, si vergognò; non voleva assomigliare ad Harakin, ma meno ancora a Fermin.

        «Imbecille fino in fondo. Imbecille».

        Fu sul punto di replicare alla fastidiosa predica di Harakin, ma alla fine decise che non ne valeva la pena. Il piacevole silenzio dell'interno dell'automobile lo metteva a disagio. «Hai passato la vita a dire che non ne valeva la pena e invece forse adesso è ora che inizi a rispondergli e che affronti quell'imbecille di Harakin» gli sussurrò la sua stridente voce interiore.

        Cosa direbbe Miren? E che ne pensava Maria di questi pensieri generati dall'odio? Respirò profondamente riempiendosi i polmoni dell'aria tiepida del taxi. Decise che si sarebbe di nuovo dedicato a osservare come l'imbrunire trasformava la città in un bosco; le strade sempre più larghe sembravano un tunnel fatto di alberi e di oscurità. Un quartiere residenziale. Vide una donna curva vicino a un semaforo e l'immagine accentuò ulteriormente quella lacerante sensazione di abbandono, trasportandolo a un'altra città, a un altro imbrunire.

        Era a Iruñea, era appena uscito da una di quelle riunioni che il Dipartimento dell'Ambiente del governo organizzava così spesso e si stava dirigendo alla macchina per tornare a casa; fu allora che vide Miren con Harakin. Conosceva il locale, una caffetteria del centro con musica tranquilla, un sordo mormorio di conversazioni e luci tenui che invitavano a confessioni intime. Erano seduti vicino alla finestra, stavano fumando; agli occhi di qualunque passante i loro gesti erano quelli abituali di due vecchi amici, ma lui si rese subito conto che in quel modo di avvicinare le teste c'era qualcosa di più della semplice amicizia. No, non erano due conoscenti che si sono incontrati casualmente per strada ed entrano a prendere un caffè. La città smise di essere un bosco e si trasformò in un deserto.

        Non aveva ceduto, comunque, all'impulso di autocommiserarsi, così come gli chiedeva il corpo; anzi, aizzato dalla scintilla dell'odio aveva concentrato la sua rabbia su Harakin. Aveva iniziato a spiarlo. Quel bastardo di Harakin aveva tutto. Che ci faceva con Miren? Perché Miren? Nelle poche occasioni in cui si trovava con Esti e Harakin nel bar di Bazter esaminava con attenzione la relazione fra loro due, chiedeva del lavoro e quando Esti gli aveva detto che Harakin passava più di una notte fuori casa per motivi di lavoro, lui l'aveva interpretato come una conferma. Vedeva Miren in rare occasioni, a volte quando andava ad Altsasu a fare spese, e in quei casi si comportava come un adolescente davanti a lei. L'amore di Miren era come la gigantesca ombra di un avvoltoio. E poi c'era l'amore per Maria, che faceva le fusa come un gattino.

        — Hai portato la poesia di Sarri, vero? — chiese bruscamente Harakin, rivolgendosi a Fermin.

        Fermin rimaneva immerso nel paesaggio di edifici di mattoni rossi fuori dal taxi.

        Harakin ripeté la domanda in tono minaccioso:

        — Hai portato la poesia di Sarri da leggere al funerale di Bazter, vero?

        Fermin distolse lo sguardo dal paesaggio, facendo capire con il suo gesto che non gli erano piaciuti né il tono né la domanda.

        — This is the place — disse allora il tassista, girandosi verso di loro.

        Tutti e tre guardarono fuori: isolati di edifici di mattoni rossi, tutti uguali; nessuna traccia di qualcosa che potesse essere un obitorio, l'oscurità della notte che si abbatteva come una lapide sulla strada vuota.

        — Where is the crematorium? — chiese Fermin.

        Il tassista guardò fuori e poi si girò di nuovo verso di loro.

        — Crematorium? This is Honey Road number 21.

        — Honey Road...? — chiese Fermin, più che sorpreso.

        Il rumore del motore risuonò nella strada deserta come se si trattasse di un animale addormentato, mentre lo sguardo del tassista saltava dai loro visi al foglio e dal foglio di nuovo alle loro facce.

        — Cerchiamo un obitorio, l'obitorio della Hackney Road — disse Fermin strappandogli dalle mani il foglio con l'indirizzo. — Hackney Road — gli indicò con il dito Fermin quasi gridando.

        Il tassista disse «Ok» e rimise l'auto in marcia. Harakin guardò l'orologio e disse «arriveremo tardi», in un tono eccessivamente tranquillo, con cui cercava di mascherare la sua rabbia.

        Fermin cercò di parlare con il tassista, ma questi si limitò a ripetere gridando «Ok» e, facendo una smorfia, chiuse il vetro che lo separava dai passeggeri. Ok! Jexus Mari notò che Fermin stava cercando con gli occhi un segnale di solidarietà da parte dei suoi amici e lasciò vagare il suo sguardo oltre il finestrino; Harakin, invece di offrirgli la sua solidarietà, gli diede la colpa.

        — L'hai fatta grossa un'altra volta: arriveremo tardi!

        Jexus Mari avvertì di nuovo che Fermin chiedeva il suo appoggio, ma non fu in grado di offrirgli niente, niente che potesse essergli d'aiuto.

        — Io gli ho dato l'indirizzo giusto; ma sicuramente ci siamo persi per colpa mia, come sempre — rispose Fermin con la sua solita acredine.

        Entrambi rimasero in silenzio, protetti dall'oscurità della strada. Era vuota. Jexus Mari osservò il tassista: sembrava tranquillo, sicuramente era abituato a situazioni simili, a perdersi, a ritrovare la strada, a non capirsi, «in una parola» concluse Jexus Mari, «abituato alla vita».

        — Sembra che il tassista sappia il fatto suo — sussurrò. Ma le sue parole caddero nel vuoto e Fermin e Harakin continuarono a ostentare la loro collera con gesti eccessivi.

        Le cinque e mezza. Non sarebbero arrivati in tempo. Rimaneva solo mezz'ora e non sapevano ancora dov'erano.

        — Siamo a posto! — gridò Fermin.

        — Quello che si è incaricato dell'ora e del posto sei tu, e guarda come ci ritroviamo: persi in mezzo a Londra.

        L'interno del taxi si fece più grande per fare spazio alla rabbia di Fermin e di Harakin. Ognuno nel suo angolo, pensò Jexus Mari, molto lontani l'uno dall'altro, a centinaia di boschi di distanza. C'era aria di tempesta, ma lui non se ne preoccupò; anzi, si preparò, quasi divertito, a osservare il combattimento tra Harakin con il suo orgoglio e Fermin con la sua acredine.

        — Infatti, l'unica cosa che hai fatto tu è stato dare ordini. Fai questo, fai quell'altro. Che si preoccupino di tutto gli altri e, se le cose vanno bene, il merito è tuo.

        — Eccoci, adesso comincia... — Harakin si rivolse a Jexus Mari, in cerca d'aiuto. — Sempre la stessa storia: invece di preoccuparsi di quel che sta succedendo adesso, lui inizia con le solite menate. Adesso mi dirà che sono un prepotente e si metterà a recriminare su chissacché capitato chissà quando.

        Jexus Mari sapeva che la mania di Harakin di guardare un'altra persona invece di quella a cui si stava rivolgendo faceva infuriare Fermin, e sentì un'onda di rabbia impadronirsi dell'interno del veicolo.

        — Quando parli di me, guardami, cazzo! — scandì Fermin, tagliente.

        Poi bussò al vetro che separava l'autista dai passeggeri. Si rivolse a lui gridando, come se urlare compensasse le carenze del suo inglese; il tassista lo guardò come avrebbe guardato un pazzo, mentre faceva gesti affermativi con il capo.

        — Hackney, Hackney — ripeteva l'autista, mentre Fermin rispondeva: — We are in hurry.

        E così passarono cinque minuti, finché il tassista, con un gesto d'impazienza, chiuse il vetro con un colpo secco. Fermin si lasciò andare esausto sul sedile, mentre i fantasmi del passato affioravano sul suo viso; Jexus Mari pensò che quella sconfitta di fronte ad Harakin l'avrebbe fatto esplodere.

        — Arriveremo tardi — disse Harakin, cercando di utilizzare un tono neutro.

        Jexus Mari abbandonò la burrascosa foresta dell'interno dell'automobile e con lo sguardo si trasferì al placido deserto delle strade vuote e buie. In cosa si era sbagliato Fermin? Honey Road, lesse alla fine della strada; girarono a destra, Moorgate. Guardò l'orologio: erano le sei meno venti e il funerale era alle sei, sarebbero sicuramente arrivati tardi; ma non disse niente. La stretta Honey Road si trasformò in Moorgate. Le luci dei negozi si riflettevano sui marciapiedi, vide la gente muoversi da un posto all'altro; tre ragazzi fermi davanti a un semaforo iniziarono a litigare, «per scherzo» pensò, mentre la condensa sui finestrini cancellava l'immagine. Per scherzo? Perché per scherzo? Sicuramente c'era qualcuno che soffriva per quel che altri facevano sul serio o per scherzo. La vita, in qualunque posto ti trovi, è sempre la stessa, la cupa ombra del dolore nelle viscere dell'allegria.

        — Arriveremo tardi — ripeté ancora una volta Harakin.

        Sentì che Fermin bisbigliava «figlio di puttana», a bassa voce perché Harakin non potesse sentirlo.

        — Senti, Fermin, il funerale a che ora è, alle sei, no?

        Siccome era chiaro che Fermin non avrebbe risposto, fu Jexus Mari a prendere la parola:

        — Sì, alle sei.

        — Non arriveremo in tempo — insistette Harakin.

        — Porca puttana, non arriveremo in tempo, e allora? Se fosse per quello che hai fatto tu, saremmo ancora nel Paese Basco, figlio di puttana.

        Era fuori di sé. Nel sentire le urla, il tassista frenò e si girò a guardare. Constatato che quello che stava succedendo non lo riguardava, continuò la corsa. Quella risposta eccessiva spaventò Harakin, che per la prima volta si mise a guardare fuori dal finestrino. Fermin sembrava vergognarsi, con lo sguardo perso, assorto.

        Kingsland Road, Sunston Road, Regend's Row, Martello Street, Hackney London Field. Un parco.

        — Hackney — disse il tassista — not Honey; the crematorium is inside the park.

        L'uomo rimase a osservare Fermin che, oltre a quelle parole, sembrava avesse bisogno anche del suo permesso per scendere. Harakin scese dall'auto ancora arrabbiato. Jexus Mari guardò l'orologio che gli aveva regalato Maria: erano le sei e venti. Era tardi, il funerale poteva essere già finito.

        Si inoltrarono nel parco come tre sconosciuti arrivati ognuno per conto proprio, ma si fermarono subito alla ricerca di aiuto reciproco, chiedendosi con gesti praticamente impercettibili dove potesse essere l'obitorio, il crematorium come aveva detto il tassista. Non si vedevano altro che alberi, castagni d'India e qualche olmo.

        Cominciarono a camminare sul vialetto, tra gli olmi e l'oscurità. Doveva essere quell'edificio dall'aspetto indefinito, una via di mezzo tra una fabbrica e un complesso di uffici.

        — Bell'edificio per essere un obitorio.

        — Quello non può essere l'obitorio — replico Harakin — sei sicuro che ci abbia portato nel posto giusto? — aggiunse subito dopo.

        Era un edificio di mattoni rossi e vetro, con il tetto piatto e una struttura in alluminio. Sembrava una fabbrica di inizio secolo.

        — Questo non può essere l'obitorio; non ci ha portato nel posto giusto — Harakin si rivolgeva a Jexus Mari.

        Fermin non gli diede retta ed entrò nell'edificio attraversando la porta di vetro, mentre prendeva il volantino che gli offriva una giovane donna all'entrata.

        Harakin lo seguì, scuotendo la testa. Jexus Mari rimase per un istante all'entrata a contemplare l'esuberanza del parco. La brezza fresca gli riempì i polmoni. Era solo. Ascoltare l'imbrunire lo tranquillizzò. Sentì vicino a sé il sordo fragore del traffico. Bazter! Era sempre stato un tipo speciale. Troppo speciale per la vita di paese.

        Seguendo le indicazioni del portiere, arrivò fino alla sala numero otto. Dopo aver dato una spinta a un'arrugginita porta di ferro, entrò in un locale con una parete di vetro. File di sedie, un piccolo palco. Fermin e Harakin rimasero a bocca aperta, con lo sguardo fisso su un travestito che stava sistemando dei fiori. Aveva il naso troppo grande, le labbra troppo carnose, le spalle troppo larghe e, soprattutto, erano troppo grandi quelle mani che saltellavano da un mazzo di fiori all'altro.

        — Hello, darlings.

        — Hello, we are Bazter's friends.

        — Sorry, Carlos'.

        — Ohi basque, basque! — esclamò mentre si avvicinava a loro barcollando su dei tacchi altissimi.

        Squillò un telefono.

        — Sì? — disse Jexus Mari. — Ah, ciao Maria — con un tono che non nascondeva l'imbarazzo per la chiamata inopportuna.

 

 

© Juanjo Olasagarre
© Traduzione: Roberta Gozzi


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