Capitolo secondo
4
La locomotiva sprigiona vapore per togliere forza alla macchina e la stazione resta sommersa nel rimbombo del fischio del treno. L'attrito delle ruote che frenano sui binari fa sprizzare scintille. Onofre tiene aperto davanti a sé il cancelletto di uno dei vagoni a terrazzino e allunga la mano ad Anita, non solo per aiutarla a salire ma anche per sentire di nuovo la pelle di lei sulle sue dita. Gli sguardi di entrambi si incrociano per un momento, la donna lo fissa dal predellino, l'uomo da sotto: tizzoni ardenti negli occhi di Anita, nelle pupille di Onofre tigri affamate; durante i pochi istanti che dura quello sguardo incrociato, l'uomo si sente sull'orlo di un precipizio in terra sconosciuta, turbato.
«Ciclón!» grida improvvisamente una voce nella stazione e Onofre si gira in senso contrario all'eco, alla ricerca di chi ha parlato. Anche lì, agenti della Guardia civil.
Con quella storia di John, per Onofre è stato come se i gendarmi, che in realtà erano sempre stati lì, fossero apparsi all'improvviso. Conosce quello che ha gridato arrabbiato «Ciclón». Non conosce invece il prigioniero chiamato Ciclón. Gli agenti vigilano sui prigionieri che stanno costruendo un magazzino vicino all'edificio della stazione appena terminato. Uno di loro è fermo e guarda il treno, nudo dalla cintola in su, mostrando al cielo il suo forte petto. Il gendarme che ha ripreso il prigioniero è di carnagione scura come il carbone e Onofre pensa che probabilmente anche solo il sudore del lavoro altrui lo fa sentire stanco. Lo vede di malumore, la testa piegata, sopportando a fatica il peso del tricorno, la sigaretta appesa alle labbra, mentre allontana il suo sguardo dal soprannominato Ciclón. È lui invece a incappare negli occhi del prigioniero, luccicanti, forse perché gli sorride. Onofre entra nel vagone dietro Anita.
Si siedono uno di fronte all'altra, vicino al finestrino. Il fumo e il fischio annunciano il pigro muoversi delle ruote e Anita finge di guardare il paesaggio, che comincia ad allontanarsi dall'altra parte del vetro. Onofre non può evitarlo; ogni volta che sale su un treno o su un qualunque mezzo di trasporto, non riesce a controllare la voglia di fumare. Anche lui guarda fuori dal finestrino e, con noncuranza, prende il pacchetto di Chester. Quel tipo chiamato Ciclón ha un'enorme pietra in mano, alzata all'altezza dell'ombelico ed è immobile mentre osserva il treno; Onofre vede nei suoi occhi una bruma che prima non aveva scorto. Comincia a fumare inquieto. Tira una lunga boccata nel tentativo di creare una cortina di fumo tra sé e quell'uomo che gli brucia lo sguardo. Fuma nervosamente.
Quando passano nella seconda galleria si ricorda di John Huxley. Del vero John Huxley, vuole immaginarsi il viso del proprietario di quel passaporto, che non ha mai conosciuto. Nella terza galleria il treno passa per un istante sotto il lucernario. Onofre vede gli occhi di Anita che lo osservano. Il ricordo della notte anteriore manda in frantumi l'evocazione di John Huxley. La pelle di Anita la notte scorsa, il suo corpo, «per la prima volta dopo tanto tempo» pensa Onofre. «Biglietti, per favore» sente che dice il controllore, e Anita mostra quelli di entrambi.
«Tutti portiamo dentro di noi una belva» pensa l'uomo, e gli dà i brividi il semplice ricordo di come si era svegliata ed eccitata la donna che adesso finge con difficoltà di essere interessata a quanto succede dall'altra parte del finestrino. Lui aveva appoggiato una mano sul suo fianco e il sentire che la morbida carne della donna si gonfiava sotto la vita, aveva spinto le sue dita a tentare timide carezze. Anita si era rivelata una pantera in mezzo alla savana. Lui aveva sentito come si allargavano le sue narici in una respirazione sempre più violenta e la sua mano si era avventurata con maggior coraggio. Trovate due colline perfette, rotonde, specchio una dell'altra, aveva iniziato a spogliarla lentamente, tremando. Fattosi coraggio, le aveva depositato un bacio sulla nuca ed era immediatamente incappato nelle sue labbra. Alla fine, era stata lei a togliersi la lunga camicia da notte. Gli occhi di Onofre avevano scoperto la femmina in quelli di Anita, guidata dall'istinto.
«Istinto» dice senza volerlo, ad alta voce. Anita toglie gli occhi dal finestrino e lo guarda.
«Niente, cose mie» risponde alla domanda che resta sospesa nello sguardo muto della donna.
Nella tensione di quest'istante sente che di nuovo ritorna il freddo. Fuori, uno stretto fiume e vaste paludi; le creste dei giunchi sono fragili chiome che il vento accarezza con voluttà. I lunghi capelli di Anita cadono sulle sue spalle, si avvicinano ai suoi capezzoli, le gambe aperte nello spazio lasciato da quelle ad arco di Onofre, il gesto di Anita per raccogliere i capelli sulla nuca, e il suo seno ancora più in vista, la bocca di Onofre sempre più affamata, più affilati i denti di entrambi. Mantiene vivo il dolce dolore dei leggeri morsi di lei sul suo petto. La pantera resuscitata in mezzo alla savana, le mani sul collo della vittima e i denti, mordicchiando qua e là, in un lungo banchetto di piacere.
Quando Onofre abbassa il finestrino per buttare il mozzicone ormai troppo consumato, l'umida brezza marina del mattino entra fino alle stive dei suoi polmoni. Sente che il mese di giugno si è già inghiottito la metà dei suoi giorni e incrocia lo sguardo di Anita. Cosa vorrà dirgli? Non riesce a capire quel deserto di ghiaccio che, nello stesso luogo prima occupato dalla savana infiammata, si estende fra loro, nei loro sguardi, nei campi magnetici della loro pelle, sul campo di battaglia del desiderio.
Per quel che ricorda, la cima più alta del piacere provato con Anita, forse l'unica. Dubita, finché è costretto a ricordarsi di un'altra donna. Deve farlo perché la sua coscienza ha cominciato a presentargli il conto dei fallimenti della sua vita, ed è costretto ad aggiungere anche questo alla lista. Sono passati tre anni da quando ha conosciuto Marina, che chiamano Malintxe, durante il suo soggiorno a Buenos Aires. La ragione per cui allora non si dimenticò di sua moglie e non rimase con lei in Argentina fu probabilmente la pura inerzia. Un'avaria alla nave li aveva costretti a fermarsi in quel luogo, ma la riparazione del guasto aveva portato con sé il ritorno a casa. Quanto accaduto nel frattempo, una parentesi.
Onofre non vuole ricordi dolorosi. Anita, annoiata dal paesaggio dall'altra parte del finestrino, prende una rivista, Siete fechas. Anche lui, al mattino, ha messo un libro nella sua borsa e glielo chiede. Point counter point, l'ultimo scherzo di John. Inizia a leggere, ma la pigrizia dell'anglofono che giace addormentato dentro di lui lo porta a concentrarsi sugli spazi bianchi tra le righe. «Anche qui è tutto una farsa fra uomini e donne» questa è l'unica cosa che gli suggeriscono le prime pagine del libro. Ritorna alla sua mente la conversazione di quella stessa mattina.
«Dovremmo andare a trovare la zia» gli aveva detto Anita appena alzati, mentre facevano colazione. «Figurati, quella vecchia» aveva risposto Onofre, rendendosi conto immediatamente del suo errore e avvertendo, minacciosi sul collo, gli artigli della pantera che aveva risvegliato la notte prima. «E quando pensi di andarci?» «Stamattina.» «Bene, allora ci andremo assieme!» Onofre aveva voluto spostare la sua mano dalla tazza di caffelatte caldo alla mano di Anita, alla ricerca di una conferma alla sua promessa, ma la donna si era ritirata dicendo, «È già tardi.»
In ogni caso, anche stanotte si risveglierà di nuovo la pantera, la sua speranza non andrà delusa, e tutto dipenderà dal suo comportamento in casa della zia. «Prenderò qualcosa da leggere in treno.» «E, per favore, non fumare.» Anche qui ha sbagliato. Come ha potuto dimenticarsi che lei gli aveva chiesto di non fumare. «Merda, che istinto e che diamine, è per questo che le si è raggelato lo sguardo.» Incoscientemente ha spersonalizzato sua moglie. Nel rendersene conto si spaventa, poiché sente che dentro di lui si è acceso un fuoco, quello della rabbia.
«Non mi sono reso conto della sigaretta, ma lo sai che i treni m'innervosiscono.»
«Non importa.»
«Sì che importa.»
«Ma no!»
Il fiume diventa sempre più stretto e sinuoso, mentre s'inoltra serpeggiando su per il bosco, e il treno è come un drago fumante, che sembra cercare la luce che s'intravede dall'altra parte del bosco. Onofre ha visto uno sparviero, orgogliosamente posato sui cavi elettrici a fianco del treno. «Come te» pensa.
«La prossima, è la nostra» dice Anita con una voce in cui si ode chiara l'eco di felicità della sua infanzia; infatti, guardando la fila di alissi al margine della strada, si è accesa nel suo ricordo un'assolata estate di molto tempo fa.
Lo sparviero è rimasto in lontananza col becco rivolto verso il basso, come fosse assente. «Lui sì che sa come si caccia!» Onofre è allo stesso tempo due persone diverse: una che ascolta attenta le parole di Anita, e un'altra che va oltre la voce della donna, quella che, mediante le sensazioni che gli giungono attraverso la vista e l'udito, mette in funzione il pilota automatico. Quante volte nei suoi viaggi per mare è rimasto sul ponte, sveglio e con il pilota automatico inserito, al suo posto! Le viscere rose dalla nostalgia, lacrime che la brezza marina fa sgorgare agli angoli degli occhi, in quelle occasioni qualunque pretesto era buono per ricordare con assoluta precisione i profili dei suoi amici. «Miraggi.» La stessa Anita, completamente nuda davanti a lui, la causa dell'attivarsi del pilota automatico, una semplice illusione, un altro dei fantasmi che sono soliti apparire durante le notti di veglia dei tropici.
«Siamo arrivati.»
Scendono dal treno e restano entrambi immobili sul binario, lo sguardo perso nel movimento del drago. Solo il fischio fumante emesso quando sta per nascondersi dietro l'ultima curva li riscuote dall'immobilismo.
«Andiamo» dice Onofre, e le cinge la vita col braccio. La strada che imboccano, leggermente in salita, è piacevole. Lo sparviero li segue da sopra, con un'ala verso l'alto e l'altra di lato, come se scivolasse dolcemente lungo un invisibile pendio di aria.
Anita allontana il braccio di Onofre e inizia a correre su per la salita, gridando, urlando come una pazza. L'uomo accende un'altra Chester e, quando alza la testa verso il cielo per soffiare il fumo, non vede più lo sparviero.
«Vieni, dai, guarda cosa c'è qui!»
«È come una bambina» dice tra sé e sé mentre sputa i resti di tabacco che gli sono rimasti appiccicati al labbro inferiore.
Anita si è fermata sulla carrareccia che si snoda tra piccole querce e ginestre spinose.
«Allora» le dice come fosse una domanda, alzando il sopracciglio mentre il fumo gli entra negli occhi.
«Guarda, queste sono le orme del cavallo del bandito!»
Ci sono dei segni simili a quelli che lascia un ferro di cavallo, tre o quattro, sulla pietra calcarea. Guardandole si potrebbe giurare che sembrano realmente lasciate dagli zoccoli di un cavallo e non incise a mano. «Il cavallo del bandito aveva forse il fuoco negli zoccoli?»
«Il giorno più felice della mia vita...» Anita non termina la frase, poiché il giorno più felice della sua vita dovrebbe essere quello in cui prese come sposo l'uomo che è al suo fianco, e sulle sue guance si accende il rossore di chi è stato sul punto di fare una figuraccia. Onofre non conosce la storia del bandito.
«Te la racconterà la zia.»
Lontano dall'allegria infantile di Anita, si ferma a osservare le rotaie che hanno lasciato là sotto. «Sei solo per sempre» dice una parte all'altra. «Banditi!», i boschi dell'Inghilterra, Bristol, le strade che corrono veloci in riva al mare, gli scogli lavorati dal gran piccone del tempo e poi l'acqua, massa inquieta, estesa, che arriva fino all'al di là.
«Proprio fin là» dice ad alta voce.
Anita lo guarda.
«Cosa dici?»
Non le risponde direttamente, ma con un'altra domanda. «E chi è, o chi era questo bandito?» la domanda cela in realtà un altro significato: Non credere che se mi perdo anche dentro me stesso, sia per non darti retta, no. È il pilota automatico.
«Te lo racconterà presto la zia; quella è la sua casa.»
Sul pendio c'è una grande fattoria, che un tempo fu una casatorre.
5
La zia di Anita, Felixa, è seduta davanti al camino spento, in uno dei quattro quadrati di luce che l'inferriata della finestra lascia entrare. Negli altri tre si vedono utensili da cucina, sembra l'interno di una barca ancorata in un mare perso nell'antichità lontana. Si sente il muggire delle vacche e Felixa dice ad alta voce: «Bianchina-aaa» allungando l'ultima vocale. Poi li invita a sedersi e Anita inizia con le presentazioni.
«Onofre, mio marito.»
«Ma sedetevi! Lo zio è nel campo, anche se non so bene a fare che cosa, perché da quando se ne sono andati i ragazzi non siamo più buoni a niente.»
Gli occhi dell'anziana donna vedono meglio nella penombra. Onofre nota il lumino a olio in un angolo della cucina.
«È per i morti» e guarda verso l'alto. Lui la imita e vede delle strisce giallastre appese attorno a una spoglia e solitaria lampadina. Su di esse si notano un'infinità di macchioline nere. Mosche, morte, attaccate per le zampe. Una colla mortale e l'ingannevole luminosità della lampadina, una terribile trappola. La vacca muggisce di nuovo.
«Zia, racconta a Onofre la storia del bandito.»
«Onofre! Che razza di nome ti hanno messo!»
A Onofre il viso della zia sembra una costa che appare tra la nebbia, gli occhi, due fari che si stanno spegnendo.
«Mangiate qualcosa, vero?»
Felixa serve del vino rosso in un bicchiere dal fondo grosso sul quale sono rimasti appiccicati resti di qualche rimedio contro le mosche e, in un cestino di vimini, delle noci, per intrattenerli con qualcosa prima di mezzogiorno.
«Molto tempo fa, si aggirava da queste parti un bandito di nome Sandalio.»
L'anziana donna inizia a raccontare, lentamente. «Vecchie storie» pensa Onofre mentre prende il pacchetto di Chester, poiché non riesce a frenare la voglia di fumare.
«Se mio marito vedesse queste sigarette! Lui fuma trinciato, però gli piacciono le cose nuove! Ma forse quella di Sandalio non è una storia vera.»
L'anziana comincia di nuovo a imbastire il filo delle sue parole. Onofre vorrebbe uscire, per fumare in pace, ma in quel momento sulla soglia appare lo zio di Anita.
«State ascoltando le storie di una vecchia?»
L'uomo gli ricorda Ercole, simile al Ciclón che ha visto al mattino; l'inclinazione dei raggi di un sole malato lascia nella penombra la sua testa e illumina il corpo, dal petto in giù, avvolgendolo in una tiepida incandescenza.
Onofre guarda dal basso in alto l'uomo che, nonostante la sua immobilità, sente respirare con la forza di un animale. I pantaloni infilati nei calzettoni, ai piedi i calzari di gomma i cui lacci intrecciati risalgono fino ai polpacci, un cinturone nero sui fianchi e le braccia incrociate; la testa sembra una cima persa tra le nuvole, invisibile tra le ombre. Fa un passo in avanti e lo si vede nella luce che entra dalla finestra. «Che testolina!» Onofre è colpito, un corpo di quel genere e una testa così piccola, consumata dalle rughe.
«Zio, questo è mio marito, Onofre.»
«Stai raccontando anche a lui la storia di Sandalio?» Prima di tutto ha voluto provocare la donna. Poi va alla ricerca della complicità di Onofre «Noi usciamo, che è da tempo che avevo voglia di conoscerti.»
«Una sigaretta?»
Gli offre una Chesterfield mentre si alza con un passo di danza.
«Veramente io fumo tabacco nero, ma dicono che bisogna provare di tutto, per cui dammene una.»
«E che fine fece Sandalio?»
«Te lo racconterò fuori, perché qui mi sembra che ci sia una riunione di donne.»
«Dicono che Sandalio sia morto in quel bosco. Che buono questo tabacco!» Entrambi si fermano a guardare verso un punto indefinito del bosco. «Donne!» dice lo zio. «Quel Sandalio venne ucciso da quattro cavalli, sì, lo fecero a pezzi. Lo portarono nel bosco, nello stesso dove aveva commesso la maggior parte dei suoi furti, e nel luogo in cui i due sentieri diventano quattro, disposero i quattro animali uniti per la coda, l'uomo legato braccia e piedi a una zampa dei cavalli e poi...»
Si sentono i muggiti di Bianchina.
«E poi, via!» È stato Onofre a finire la frase. «E quel poveraccio fatto in quattro pezzi.»
Si abbassa fino ad accovacciarsi. Guarda in lontananza, dall'alto in basso, costretto dal fumo ad alzare il sopracciglio sinistro.
«Io invece avevo sentito qualcosa a proposito di un sottomarino, ce lo raccontò Anita il giorno che venne a dirci che si sposava.» Nel bagliore dei suoi occhi traspare l'ammirazione per il marinaio.
L'aneddoto del sottomarino. È vero, accadde pochi giorni prima del loro matrimonio.
«La nave si chiamava Baldur, una nave da carico.»
Onofre pronuncia quel nome, Baldur, paura, sicuro del timore che genera. E si dilunga nelle spiegazioni su come la Spagna, sebbene non fosse entrata ufficialmente in guerra, aiutasse i tedeschi, soprattutto col ferro, il materiale più importante per una guerra e che lui, Onofre, era capitano di una pilotina al molo mercantile di Saltacaballos e che quando arrivò la Baldur la aiutò a far manovra con assoluta normalità.
«Ma, non so se Voi avete mai visto la scia di un siluro?»
«No» risponde lo zio.
«In ogni caso è lo stesso. Cosa faranno quelle due, ancora lì dentro?»
«Donne!» dice lo zio, chiedendogli di continuare con la storia del sottomarino.
Onofre guarda la Isabelita, la locomotiva a vapore che appare sotto di loro. Il suo amico Juan. Il passaporto di Huxley l'aveva preso sulla Baldur; infatti, continua a raccontare allo zio, se si vede anche una volta sola la scia di un siluro, non la si può dimenticare, e lì c'erano proprio due di quelle scie; lui, Onofre, all'inizio non le aveva riconosciute, ma il capitano della Baldur sì. Aveva cominciato a gridare in tedesco che bisognava allontanarsi alla svelta e per fortuna Onofre aveva capito qualcosa, altrimenti sarebbe morto lì.
«La Baldur affondò, ma non immediatamente.»
Anche il fischio del treno scompare nell'aria, in lontananza. Quando gira la testa, vede che lo zio di Anita gli sta facendo segno di alzarsi.
«E allora?» gli dice affinché prosegua col racconto.
Il primo siluro colpì in pieno la nave ma senza farla esplodere, poiché non era esplosivo ma solo perforante. Il secondo attraversò da una parte all'altra la sala macchine e spezzò l'imbarcazione in due, a metà, e lì morirono un marinaio di Castro e un altro che chiamavano padre Martínez, e anche il capitano fu ferito. La nave affondava e il capitano aveva bisogno d'aiuto, Onofre si avvicinò a lui e costui lo scongiurò di mettere in salvo il giornale di bordo e i documenti. Dopodiché andò direttamente nella cabina del capitano alla ricerca di qualcosa da salvare, si rendeva conto che la nave presto sarebbe affondata e, mentre tirava fuori i corpi bruciati e sanguinanti del marinaio di Castro e di Martínez, fece finta di salvare i documenti di quei poveracci. Ma fece solo finta. Prese invece il giornale di bordo e, mentre stava per uscire, vide un passaporto inglese. E, senza sapere perché, lo nascose sotto la camicia.
«Un passaporto inglese su una nave tedesca?»
Anche Onofre si è fatto per anni la stessa domanda. Un bottino di guerra, o forse l'aveva lasciato qualcuno che utilizzava quella nave per servizi di spionaggio, fatto sta che per Onofre quel libretto fu veramente un bottino di guerra. Infatti, benché non vi avesse preso parte, gli sembrava che conservare quel passaporto fosse una forma di partecipazione.
Il silenzio creatosi fra Onofre e lo zio si allontana verso le rotaie e uno stormire di ali sorprende i due uomini. Lo sparviero è apparso di nuovo sopra di loro.
«Onofre, ci sei?» dice Anita ad alta voce e con la fronte corrucciata, mentre lo sparviero vola verso la pineta.
«Donne!» dice lo zio.
Lei lo prende per il braccio e iniziano a scendere il pendio. Onofre vuole salutare ancora una volta lo zio di Anita e, quando lo vede là in alto e con il sole alle spalle, l'uomo gli sembra di nuovo Ercole. «È lui Sandalio.» Vicino a Ercole compare anche la zia e a Onofre sembra tutto più chiaro. Sulla strada della stazione gli torna alla mente un detto: La tua donna in catene ti porta, quella di nessuno della libertà ti apre la porta. «La porta della libertà? Ma se sei stato proprio tu a chiudere la tua.» Per l'ultima volta guarda verso l'alto.
«Svelto» dice Anita timorosa di perdere il treno.
«Donne!!!» grida Onofre allo zio-Ercole-Sandalio.
6
Point counter point, il lungo romanzo di Aldous Huxley, è diventato per Onofre un ponte per passare da questa a qualche altra riva. Lo sta leggendo lentamente, a volte una sola riga, poiché gli sembra che le parole nascondano qualche messaggio occulto. Anita ha trovato nei lacrimosi romanzi della radio una nuova terra dove sognare durante i lunghi pomeriggi, pertanto il suo unico svago è uscire a passeggiare o rimanere a casa a leggere, finché giunge l'ora, tutti i giorni, di riunirsi con gli altri paesani nella taverna Ikaztegieta. Evita di andare al Kasino dopo quella faccenda di Juan. Nell'Ikaztegieta è solito sedersi nella stanza il cui balcone dà sull'insenatura del porto, finché, nel percorso ovale dei raggi solari, il suo angolo preferito non resta in ombra. Anche adesso, in treno, sta leggendo Point counter point.
«Si dice treno» la donna seduta di fronte a lui corregge il bambino che ha in grembo. Cerca di fare in modo che il bambino sembri avere meno anni di quelli che ha, così da non pagare il biglietto. Il profumo da quattro soldi che emana e le scarpe consunte evidenziano la sua condizione di povertà. «Il treno!» Onofre ride dentro di sé, e il gesto di prendere una Chester gli si gela quando il bambino gli sorride, guardandolo negli occhi con aria giocherellona.
«Comportati bene!» Onofre si sente in dovere di dire qualcosa al bambino ma, temendo che questo possa diventare il primo passo di una banale conversazione, s'immerge nel libro, senza accendere la sigaretta. «Un bambino, un bambino, un bambino» mormora per tre volte tra sé e sé. Da tempo, Anita desidera un figlio.
«Non ho ancora capito perché siamo venuti a trovare tua zia» le aveva chiesto l'ultima volta, dopo essere saliti sul treno e aver trovato un posto a sedere, approfittando della fragile fortezza che il frastuono della locomotiva aveva alzato attorno alla loro intimità. «Sono venuta a prendere delle erbe.» «Erbe?» «Sì, erbe per rimanere incinta, stupido.»
Erbe per rimanere incinta! E la ragione per cui era andata a Bilbao, durante quei quindici giorni che Jon l'Inglese era rimasto in paese, era la stessa, un bambino; «passano gli anni e la vita di una coppia non ha senso senza figli». Onofre osserva per un istante il bambino che ha di fronte e questi nasconde la testa nel collo di sua madre, come se si fosse spaventato. Ha visto un fuoco scuro attraversare come un lampo le pupille di Onofre. Comincia a piangere.
«Buono» gli dice la madre.
Fuori è primavera. La scia fumosa della Isabelita si estende sulla rugiada e, dall'altra parte, nei terreni prosciugati, campi rubati dall'uomo alle maree, si vedono delle vacche. La donna e suo figlio scendono dal treno alla stazione successiva. Onofre resta solo e a suo agio mentre il treno entra nel tratto serpeggiante del bosco. Riesce a leggere un'intera pagina prima che il treno imbocchi la prima lunga galleria e si spengano le fioche lampadine. «L'occhio frontale della macchina ha bisogno di tutta l'energia» pensa. Senza sapere cosa lo spinga a farlo, abbassa la parte superiore del finestrino con decisione, perché nessuno lo vede, e si alza per sporgere la testa. Davanti a lui, vede uno spazio che il dardo di luce che la locomotiva lancia davanti a sé inonda di un pallido chiarore, illuminato allo stesso ritmo delle ruote, trac-trac, che sembrano leggere una partitura scritta nei solchi della parete lasciata grezza dagli scavatori.
«Il treno» grida a pieni polmoni. «Il treno!!!» urla una seconda volta. Subito dopo una nuvola di fumo entra nel suo scompartimento.
«Ma è impazzito?» Qualcuno lo rimprovera con voce vibrante di rabbia. Onofre chiude il finestrino e si siede, mentre si riaccendono lentamente le lampadine giallognole del soffitto. «Sempre la stessa storia» dice la voce di prima, «le luci si accendono quando non ce n'è bisogno.» Onofre pensa che dovrebbe uscire in testa al vagone. «Più tardi.»
Invece si avvia subito verso il terrazzino del vagone con il libro sottobraccio. Scorge, in fondo, colui che dev'essere il proprietario della voce che l'ha ripreso, borbotta da sotto il cappello: «La porta!» è l'ultima cosa che gli sente dire.
Dal terrazzino Onofre vede un altro fiume che scorre in senso contrario a quello lasciato alle spalle. Il monte separa le acque in due vertenti, verso due pendii diversi; se da una parte la forza cristallina dell'acqua si perde in un fitto bosco, da quest'altra scorre come dolce latte tra i campi e i frutteti. Onofre vede i meli in fiore, quei petali bianchi con un punto rosso in mezzo, gli solleticano gli occhi. «La cosa delle donne», l'uomo sente sulle dita la stessa sensazione di quando accarezza il sesso di Anita. Accende un'altra Chester. «Non serve a niente il fiore se i suoi preziosi petali cadono prima che si sia formato il frutto.» Non possono avere figli e per questo lui è qui, su questo terrazzino del treno, verso Bilbao, per andare da un medico, così come aveva fatto Anita, senza dirgli niente. La prima volta quando era arrivato Jon l'Inglese e, in seguito, chissà quante altre volte. Gli sembrò ancora peggio quando seppe che Anita stava cercando delle erbe particolari: «Forse sono io quello che non può avere figli, non preoccuparti, andrò dal medico.» «Ho bisogno di un orto dove piantare delle erbe» così gli aveva risposto Anita ancora sul treno.
Il treno entra nella lunga galleria di Atxuri e Onofre rimane lì, in piedi, respirando fuliggine come durante le notti perse in mare, immerso più profondamente che mai nel suo ego ingigantito dalla sensazione di essere solo, nel bel mezzo delle forze della natura, senza fare né pensare nulla, se non fosse per quel martellare del cuore nelle vene e l'insistente musica d'orchestra delle ruote del treno, che interpretano una monotona melodia jazz. Il treno esce alla luce, lentamente, perché Martin il macchinista ha tirato il freno prima di uscire dalla galleria. A sinistra appare la faccia, sporca, di Bilbao, come se le lacrime dei suoi occhi, di solito allegri, scivolassero su di essa macchiate di rimmel. «I ricchi sorridono, i poveri gemono.»
Sale su un filobus di quelli che hanno posti a sedere anche sul tetto. Alla fermata successiva si riempie.
«Salga» gli dice il bigliettaio con indolenza.
Onofre sale. «Vai fino alla piazza di Indautxu e poi chiedi.» E` l'unica indicazione che gli ha dato Anita, oltre a dirgli che il medico si chiama Urigoiena. «Merda!»
Sugli alberi della Gran Via, il rovescio delle foglie che Onofre ha davanti agli occhi si mostra di un verde chiaro, quasi trasparente. Guarda all'indietro e vede l'altra faccia delle foglie, anch'essa verde, ma più scura. «Tigli, da una parte chiari e dall'altra scuri, un soffio di vento e mostrano l'altra faccia.» Un lungo ramo lo colpisce leggermente sul mento. Sente il polline nella barba che è già spuntata: se si rade molto presto al mattino non gli dura oltre il mezzogiorno. «Anche le piante hanno quello che tu non hai, caro amico.» Onofre si dà un colpo basso, come se volesse stringere se stesso alle corde del ring. «Il vento espande in abbondanza questa polvere feconda, e tu, tu non sei nemmeno una pianta, sei una pietra.» Si assume la colpa di non avere figli, e lo fa quasi senza rendersene conto, quando il dubbio che ha covato a lungo lo assale con tutta la sua forza. «Perché tu?»
«Per favore» chiede a una vecchia venditrice di giornali, in castigliano poiché non può credere che a Bilbao si parli basco, «l'ambulatorio del dottor Uri- goiena?»
Mentre sale le scale dello studio di Urigoiena, lasciando scivolare le dita sul passamano di ferro e i piedi sui gradini di marmo, ricorda i seni e le natiche di Anita. «Per questo non può essere lei a essere sterile.»
«Davvero crede, signor Onofre, che con quel seno Anita non possa essere sterile?» il dottor Urigoiena, seduto di fronte a lui, parla in basco, ma lui pensa: Comunque non è di qui. «Ciascuno di voi può essere quello che non può avere figli, o forse nessuno dei due, non lo sappiamo ancora. Sua moglie è stata qui qualche mese fa e le ho dato alcuni consigli.»
Urigoiena gli parla come se stesse guardando una stella lontana dal telescopio formato dai suoi occhiali. Se ha capito bene, le carezze di Anita, l'avventurarsi senza ostacoli e più frequentemente che mai nel territorio della sua pelle, i suoi giochi tra le lenzuola, quello stesso «tu, così» che tanto gli piace, con lei sopra sentendo che tutto il suo corpo passerà al corpo dell'altro sciogliendosi, non si dovevano ad altro che ai consigli del medico.
«In questi casi dico sempre la stessa cosa, che è meglio non sapere chi dei due non può, perché poi, per parlare chiaro, vengono le discussioni tra marito e moglie. Ma, ovviamente, se voi lo desiderate, possiamo fare delle analisi...»
Ed è qui che Onofre comincia a perdersi, e senza che lui stesso sappia come, si ritrova nudo dalla cintura in su, sdraiato su una specie di lettino, mentre quel tal Urigoiena non smette di parlare.
«Già che è venuto fin qui, non vorrà andarsene così. Bisognerà fare gli esami del sangue e dell'urina, ma a digiuno, per cui dovrà tornare un'altra volta. Adesso respiri a fondo. Fuma?»
«Sì, però, cosa c'entra?»
Il medico e il boia si comportano allo stesso modo, s'impadroniscono della scena; Onofre ricorda le immagini della fucilazione. Si perde la capacità di agire per se stessi, il medico gli tocca il polso e il coraggio se ne va a frotte, come quando uno sta per essere fucilato, gli occhi bendati e un unico movimento, una respirazione simile a quella di un animale.
«Fuma troppo.»
«Sì, ma tabacco biondo» volendo così dire che è migliore.
«Ancora peggio. Onofre, lei è pieno di pregiudizi. Non sapevo che il colto marito di Ana ragionasse come un villico. Ah, come passano gli anni, lei e Ana, marito e moglie!»
«Conosceva da prima mia moglie?» L'ultima frase del signor Urigoiena ha sorpreso Onofre.
«Da piccoli, in campagna, quelle sì che erano estati! Cose da bambini, lo sa, io ero innamorato di Ana. Quant'era bella! E giocava sempre con i maschi.»
«Le avventure di Sandalio e cose del genere, vero?» Nemmeno Onofre sa perché ha citato quel nome, forse per quell'immagine dei quattro cavalli, il corpo fatto in quattro pezzi, le quattro strade, che scava dentro di lui come un granchio.
«Sandalio, sì!» Dopo aver sospirato, il medico sprofonda di nuovo nella sua poltrona, dando per conclusa la conversazione da pari a pari dall'altra parte del suo telescopio. «Meglio se non fuma, né biondo né nero: niente. Tossisce, eccetera, con frequenza?»
Onofre non vuole sapere che eco abbia quel «eccetera» che è rimasto sospeso per aria.
«Attenzione con il fumo!»
L'immagine del granchio si fa spazio nella sua mente. Quando si cammina scalzi, nelle acque poco profonde del porto, guardando verso il basso, nulla tradisce la sua presenza sotto la sabbia. Nulla, finché il dito del piede non tocca un determinato punto. Allora, nello stesso luogo dove non c'era niente, sotto la sabbia qualcosa comincia a muoversi, i granelli di rena volano in un mulinello stregato, come mossi da qualcosa di invisibile, e lì appaiono i due occhietti, la piccola cresta formata dalle chele allungate e sul punto di uscire: un granchio. C'è un granchio sotto la sabbia. A Onofre sembra che nei suoi polmoni si siano annidate delle formiche. Le radici della possibile malattia si trasformano in zampe di granchio nascoste sotto la sabbia, e confessa a se stesso che il fumo di ognuna delle sigarette fumate gli ha graffiato i polmoni.
«La decisione la deve prendere lei, tanto rispetto al fumare come al fare le analisi. Come le ho già detto, per me è meglio non farle e verrà quel che deve venire.»
Deduce che queste ultime parole vogliano significare «abbiamo finito, può andarsene tranquillo, lei che mi ha rubato Anita». Si alza e quando Urigoiena gli allunga la mano chiede quant'è, tremando come se temesse che sulla strada che deve percorrere la voce dai polmoni alle labbra ci fossero dei ladri. Non vuole denaro.
«Niente. Quando arriveranno i bambini, perché sicuramente arriveranno, allora faremo i conti; non si preoccupi, noi non ne abbiamo avuti per cinque anni e poi, uno quasi ogni anno.»
Quindi non gli ha rubato niente; pensa che forse sta perdendo la testa, e la terra gli trema sotto i piedi. Non riesce a capire se il medico stia ridendo di lui dietro il suo telescopio e, volendo dimostrargli la sua tranquillità, gli chiede: «Ma questo Sandalio, è esistito davvero?»
«E come no! Lasciando da parte la faccenda delle impronte degli zoccoli, tutto il resto è la sacrosanta verità. Se non ha altro da fare, sulla strada per la stazione, si fermi da Txano e le racconteranno la storia di Sandalio.»
«Addio.»
Onofre ha bisogno di tutto l'ossigeno contenuto nella brezza che soffia per strada per portarlo alla zona più profonda dei suoi polmoni, e cacciare tutti i granchi fino al nucleo incandescente della terra. In modo meccanico si porta una Chester alle labbra. Per quando si rende conto di quello che sta facendo, l'effetto del fumo lo tranquillizza. Gli abissi sono diventati dolci pianure. «Txano. Ho già visto altre volte quel cartello.» Come se volesse dimostrare che i sospetti di Urigoiena non hanno alcun fondamento, si dirige a piedi giù per la stessa strada che prima ha percorso in salita, immerso in altri pensieri.
Il mezzogiorno annuncia calorosamente l'arrivo dell'estate. Si toglie la giacca e resta in maniche di camicia.
7
«Certo che le donne sono proprio strane!» Il verde chiaro delle foglie dei tigli adesso è ancora più argentato. «Spogliarsi davanti a un conoscente!» Se il medico fosse un suo amico, lui non avrebbe mai avuto il coraggio di farsi vedere nudo. «Ma siamo diversi, e non ci si può far niente.» Immagina Anita, nuda dalla cintura in giù, davanti a Urigoiena. Ricorda quei suoi strani occhiali e ride tra sé e sé. «Forse la cosa migliore per non dargli troppa importanza è farlo e dirgli: guardi, ho qualcosa qui, mostrarglielo e finita lì.»
Il suo sangue ribolle a causa di un nuovo fuoco. I lacci del corsetto di Anita, meravigliosa legatura, gli sembrano eccitanti e, visto come stanno le cose, pensa che dovrebbe avere il coraggio di dirle: «Lascia che sia io a slacciartelo.» Il peso del romanzo che tiene nella tasca della giacca gli ricorda cosa si porta appresso. «Mi ci vorrebbe proprio una birra.» Sceglie il Pacho ed entra.
«Una birra.»
«Questa?» il proprietario gli risponde in euskara, segnalando una spina che sembra il collo di una giraffa.
«Sì, va bene, quella.»
È lo stesso. Non beve birra molto frequentemente. Prende il libro e rilegge l'inizio. My mistress' eyes are nothing like the sun, più belli del sole gli occhi della mia dama. «Ma tu, Onofre, non ti sposasti veramente innamorato.» Manda giù la confessione che ha fatto a se stesso, amara come l'orzo, come la birra, come se lasciasse in gola un resto di qualcosa, ed entrambe gli offrono la stessa tranquillità. «E che importa?» Nei versi successivi c'è la risposta. Coral is far more red than the lips' red, if snow is white why then her breast are dun. Onofre traduce meccanicamente e al pronunciare per se stesso i suoi seni, ricorda quelli di Anita. Ci perdiamo per il loro seno. Il latte del suo petto è scuro. Finché non ci sono bambini non c'è latte, e nonostante questo il latte è scuro sui suoi capezzoli.
Esce dal Pacho come se l'invisibile braccio della birra lo conducesse per mano, lasciando nell'aria un allegro «arrivederci» di spumoso giubilo. Procede sulla Bidebarrieta finché arriva davanti alla cattedrale. Per un momento rimane lì, immobile. Appoggiandosi sul piede destro e con un movimento del corpo, gira lentamente il collo in modo da poter leggere le insegne di tutti i negozi.
«Txano, per favore.» I suoi occhi non hanno trovato niente e, rassegnato, è costretto a chiedere informazioni a un mendicante appoggiato al portone.
«Proprio lì» risponde il mendicante. Onofre non si sarebbe vergognato tanto se gli avesse chiesto «ma lei è cieco?» Il negozio è proprio di fronte a lui.
«Maledizione, è un negozio di musica», resta fuori e guarda la vetrina.
All'interno appare un'immensa testa, completamente calva, quella della persona dietro al banco. Intuisce una certa affinità e procede, portando con sé dentro il negozio, nell'aprire la porta, il rintocco delle campane della cattedrale, mentre pronuncia un lungo «Buon giorno.»
«È un buon giorno, sì» risponde impacciato il calvo.
Onofre ricorda di nuovo il romanzo. If hairs be wires, se i capelli fossero fili. Lui non si sposò innamorato, il più sottile dei fili è sufficiente per legare un uomo, e non occorre dire altro. Cercando di far qualcosa, si dirige verso un angolo del negozio, assicurandosi con la coda dell'occhio che il calvo faccia finta di non guardarlo. «Non sai suonare nessuno strumento» dice a se stesso, scherzando, perso in quella moltitudine di strumenti musicali. Guarda il calvo e lo sorprende a osservarlo. Il commerciante abbassa lo sguardo e lo fissa su qualcosa che ha davanti a sé e che Onofre non sa cos'è. Come se volesse chiedere scusa per averlo colto in flagrante, anche lui punta lì i suoi occhi. «Dischi.»
«Ecco, è proprio quello che cercavo» erano proprio lì e lui non se n'era accorto, dice giustificando la frase.
La stessa voce interiore che gli ricorda che Point counter point è un anello di una lunga catena di casualità, gli ordina di non rompere il filo degli avvenimenti. Comincia a cercare tra i dischi, ricordando i nomi che ha letto nel romanzo.
«Qualcosa in particolare?» per rivolgersi a lui, il negoziante deve girare la testa e allora si rende conto che è assai più giovane di quanto non gli fosse sembrato a prima vista. «Parla euskara, vero?» devono essergli venuti due occhi da pesce lesso, perché il commerciante continua a dire, quasi a scusarsi, «è che qui, tutti salutano con un sonoro egunon, buon giorno, ma poi tutti parlano in castigliano.»
«Sì, parlo euskara.»
Onofre ha il coraggio di aggiungere qualcosa calorosamente. La maggior parte dei nomi che appaiono sui dischi gli sono sconosciuti.
«Della costa?» senza aspettare che gli risponda affermativamente continua a parlare. «Qui in negozio non se ne vedono molti. Desidera qualcosa in particolare?»
Onofre non sa che scusa inventare. Lui è della costa ma la famiglia di sua moglie ha una fattoria, forse la conosce, anche il dottor Urigoiena la conosce.
«Ma certo che la conosco: Ana! Questo è un buon disco.» Ha tra le mani uno su cui è scritto: Mozart. «Abbiamo passato delle estati indimenticabili. Ma se preferisce qualcosa di qui, perché non prende la musica dell'organo di Santa Maria di Donostia?»
Il calvo, che vede un'altra volta più vecchio, parla con autorità, senza che Onofre, che vorrebbe prolungare la conversazione, se ne renda conto; non ha un giradischi in casa.
«Allora questi» sceglie alcuni dischi; dato che Huxley cita ripetutamente Mozart, non vale la pena rompere la catena delle casualità.
«Per cui lei è dello stesso paese di Sandalio?» Un istante di silenzio, e Onofre aggiunge: «Se è vero che questo Sandalio sia esistito in realtà.»
«Certo che è esistito! Ci sono tanto di documenti. Prima ladro, poi soldato della milizia locale in Gipuzkoa e poi di nuovo a fare il bandito. Lei sa, allora come adesso, tale padre tale figlio, chi sa rubare s'incarica di dar la caccia ai ladri.»
Mentre continua a parlare pacatamente, Onofre appoggia tre o quattro dischi sul banco che il calvo ha preso come pulpito. Gli piace la pace che fluisce dalla sua voce.
«Si sposò ma, dopo un po', se ne andò con un'altra donna e dicono che con quest'ultima rubasse, e che avesse lasciato i suoi figli con la prima moglie.»
«Romanzi.» Onofre ha letto molti romanzi negli anni che ha trascorso solcando i mari e non può certo credere a queste favole.
«Lei è capitano!» Ha indovinato. «Certo, lei ha studiato tutto quello che riguarda le stelle, ma le hanno insegnato ben poco dei mari che esistono tanto dentro di noi così come nella storia. L'uomo non è mai stato schiavo come adesso; o uno si sposa o non c'è niente da fare.»
«Senta... non ho niente per ascoltare i dischi» gli esce con rabbia, perché se all'inizio l'ha presa come una scusa, adesso la curiosità lo spinge a oltrepassare la soglia di quest'altra porta che il destino gli ha aperto, accelerando la velocità del suo sangue.
«Dice che non può ascoltare i dischi? Il problema è subito risolto. Si compri un giradischi ed è a posto, lei sicuramente ne ha la possibilità. Inoltre» si ferma dubbioso, con un sorriso infantile sulle labbra, «lei non è venuto a comprare dischi.»
«Sì e no.»
Ha agito tante volte nella vita senza averci prima riflettuto sopra, per poi pentirsi, nella maggior parte dei casi, quando sono state scoperte le carte; Onofre sa benissimo di possedere due personalità. Uno è il pilota automatico. L'altro è il capitano, troppo carico di caffè, testardo, traboccante di intricati sogni e ossessioni. Gli piace l'uomo del negozio. «Questo non è un semplice commerciante, per lo meno a giudicare da come parla.»
«È ora di chiudere il negozio; se lo desidera, prenda il giradischi, altrimenti lasci i dischi e il resto e andiamo a bere qualcosa; non tutti i giorni ho la possibilità di parlare della mia più grande passione, il mare!»
Onofre gli risponde che intende comprarlo e, mentre avvolge il tutto in carta e lo colloca in una scatola, il negoziante dice: «Io invece, vede, studiai Storia in quella maledetta università e adesso sono qui, a vendere flauti e tamburelli. Non porterà il giradischi in mano, vero? Glielo porterà a casa il camion di Atutxa. Farà la consegna stasera. Ah, mi scusi, io sono Doroteo.»
«E io Onofre.»
I due nuovi amici chiudono il negozio e si perdono nel labirinto di bar di calle Somera. Ognuno di loro vede nell'altro quel che a lui manca, l'uomo della terraferma perché non conosce la paura del mare sotto i piedi, il marinaio perché non sa come si calcola la deriva quotidiana del sole visto sempre dalla stessa finestra, e rimangono insieme finché giunge l'ora di riaprire il negozio, prima accompagnati dal vino e poi pranzando. Il caffè richiede un liquore e Doroteo e Onofre fanno quel che nessuno dei due è solito fare, berselo.
«Hai proprio un nome strano» dice all'improvviso Onofre animato dal caldo interiore.
«Anche tu non scherzi» gli risponde dandogli anche lui del tu, per riaffermare la reciproca confidenza.
«Perderai il treno. E mi sa che oggi non riuscirò a mandarti il giradischi.»
In treno, Onofre si addormenta. In sogno vede la morte di Sandalio così come gliel'aveva raccontata lo zio di Anita. Prima lo vede prigioniero in un'immensa fortezza nel deserto. «L'hanno tenuto prigioniero lì.» Ha il viso coperto, come i musulmani, e quando si toglie il velo Onofre riconosce il suo viso nella faccia di Sandalio. Fugge. Passa di mare in mare, capitano di una sobria nave che non è altro che fumo, ma si nasconde nelle stive. Il fumo diventa nebbia e lì vi scorge Sandalio, legato braccia e gambe ai quattro cavalli. Onofre si china per vedere il viso di Sandalio. Adesso Sandalio è il suo nuovo amico, Doroteo, e continua a ridere, senza smettere, e gli dice qualcosa. Quello che gli dice provoca in Onofre allegria e risate, le due cose contemporaneamente. Qualcuno sprona i cavalli e il corpo di Sandalio, fatto in quattro pezzi, vola per aria, mentre la testa continua a ridere, lì per terra, senza corpo.
Il fischio del treno risveglia Onofre. Sta facendo buio. La fuliggine della Isabelita entra comodamente nel vagone. Onofre cerca di ricordare le ultime parole di Sandalio. Non ci riesce. Nel suo oceano interno sente il malessere dell'alta marea, come se il granchio avesse allungato lentamente sotto la sabbia le sue otto zampe e le sue due pinze. «Il liquore! Lo sai che non devi berne neanche un goccio.» Esce sul terrazzino.
Pensa che giugno, quando arriva al suo meridiano, vuole dissanguare il cielo che appare rosso dopo l'ultima curva, da dove si comincia a vedere il mare. Accende una sigaretta girando le spalle al vento. Il treno rallenta. I prigionieri lavoratori si affannano per alzare i muri laterali sotto lo sguardo vigile dei gendarmi. Ritorna alla sua mente quello chiamato Ciclón. Alla stazione lo vede di nuovo, tra coloro che stanno costruendo il magazzino. Si guardano a vicenda, riconoscendosi dalla mattina e si salutano con un gesto muto.
© Edorta Jimenez
© Traduzione: Roberta Gozzi