Beste hizkuntzetako lanen zerrenda

  Traduzione: Roberta Gozzi

 

 

 

—6—

 

Risi. Ricordo di aver riso e che la mia risata era stata spontanea, non si trattava della coraggiosa commedia che il carcerato deve a chi gli fa visita.

        — Se non vuoi no, ma può essere una possibilità...

        — L'unica possibilità, non è vero? —dissi per scherzo, ma prese quell'affermazione sul serio.

        — A dire il vero: sì...

        — Non vorrei avere debiti con quel signore.

        Era un democratico sincero, formatosi ai tempi in cui credevamo di poter imparare la democrazia dai libri e dalle mode che ci arrivavano dall'Europa, era di quelli che hanno il coraggio di denunciare le ingiustizie, un amico utilizzato da gente come noi, un angelo manipolabile, direi. In ogni caso, uno dei molti che abbiamo bruciato sulla nostra strada. Non poteva comprendere quella tranquillità, l'avvocato pensava, sperava, che la mia impassibilità sarebbe svanita quando la richiesta del pubblico ministero si fosse concretizzata in una sentenza. Insisteva, sembrava un confessore impegnato a salvare la mia anima.

        — Devi prendere liberamente una decisione.

        — Ho preso liberamente quella decisione da tempo, da quando ho impugnato un'arma —volevo vedere se avrebbe avuto il coraggio di negarlo.

        — Adesso non hai armi, adesso la cosa più importante è la tua vita.

        Non voleva capire. Di punto in bianco mi ero trasformato in un cliente. Ed il lavoro dell'avvocato era fare tutto il possibile per il suo assistito, non perseguire un obiettivo politico. Gli risposi molto tranquillamente, con un sorriso, nonostante mi provocasse un certo senso di nausea, sospirando come se mi trovassi davanti ad un alunno un po' ottuso che ripete un errore per l'ennesima volta:

        — La miglior arma che ho è proprio la mia vita. Anzi la mia morte, per essere precisi.

        Ammutolito, abbassò lo sguardo e infilò le mani nella sua valigetta nera, alla ricerca di un foglio.

        — Mi dispiace... un grave contrattempo nella tua carriera!

        Alzò lo sguardo di scatto. Ferito non so se dalla poca importanza che davo alla mia vita o dalla mia ultima frase, aveva gli occhi umidi. Non l'aveva presa bene, l'avevo offeso.

        — Non sono qui per far carriera! Ci sono strade migliori per quello!

        Apprezzai quelle parole e mi pentii delle mie.

        — Scusami... voleva essere una battuta, sono nervoso.

 

 

Non credo di essere stato particolarmente nervoso, per lo meno non fino al punto da dover scacciare la paura mettendomi a ridere. Mentre tornavo verso la cella chiesi al secondino che avevo al mio fianco se era credente. Era cattolico, rispose, anche se non andava in chiesa. Mi accompagnava un po' rigido, direi spaventato. Forse aveva ascoltato la mia conversazione con l'avvocato da dietro la porta. Volli verificarlo.

        — Il mio avvocato dice che solo il Papa può salvarmi.

        — Il Generalissimo è molto cattolico.

        Mi sorprese una risposta così diplomatica, avrebbe potuto essere un buon conversatore. Ora erano loro a dover muovere dei passi. Il Papa in persona avrebbe chiesto a Franco di graziarmi, senza bisogno che il mio avvocato gli inviasse alcun telegramma: la Chiesa sa bene quando deve prendere le distanze da una dittatura. Il Generalissimo non poteva più insegnare a nessuno fino a che punto un cattolico doveva essere tale, la guerra fredda era finita e Roma voleva ripulire il suo passato fascista. Se mi avessero ucciso, il popolo basco forse non si sarebbe sollevato, non c'erano ancora le condizioni per un evento del genere, tuttavia avrei iniziato a crearle, mi avrebbe collocato tra i suoi martiri. Io non ero che uno strumento, un angelo manipolabile.

        — No, non di là. Lei è stato trasferito a un altro braccio.

        — E le mie cose?

        — Le abbiamo portate qui, abbiamo trasportato tutto mentre era in parlatorio. Da questa parte al mattino batte il sole.

        Sedetti per terra con la schiena appoggiata alla parete, come ero solito fare quando ero nervoso, con il desiderio di affondare in essa; come se fossi stato alla vigilia di un viaggio atteso con ansia, mi addentrai nei particolari di quello che mi aspettava. Avrei potuto verificare se era vero ciò che avevamo letto nei romanzi, o se quei vecchi comunisti della prigione di Cordova mentivano. Avrei saputo se davvero mi avrebbero chiesto di esprimere un ultimo desiderio, se mi avrebbero offerto l'ultima sigaretta. Se è vero che non bendano gli occhi. Se avrei dovuto stringere la mano a quelli del plotone d'esecuzione.

        Colpii le pareti, parlai nei tubi. Non ebbi risposta. Mi arrampicai in qualche modo fino alla finestra. Anche i compagni stavano nelle loro celle, lontani. Nessuno parlava, chiusi il pugno verso di loro, sembrava che li stessi minacciando. Eravamo soli, molto soli. Avevamo una prigione di Bergara per ognuno di noi. Loro perché non sapevano che cosa dire a chi va a morire ed io perché avevo paura che pensassero che li sottovalutavo. Pochi minuti prima ero disperatamente alla ricerca di comunicare con qualcuno. Ora non avevo voglia di dire niente.

 

 

Nelle ore di cella del pomeriggio si presentò un detenuto comune con delle coperte piegate sotto il braccio. Dietro di lui, il secondino.

        — Le manca qualcosa?

        — Non ho ancora aperto le borse.

        — D'ora in poi avrà un regime carcerario diverso: due ore d'aria al mattino ed il resto della giornata dovrà passarlo in cella.

        Non dissi niente, avrebbero voluto che mi lamentassi, che chiedessi loro dei favori. Il detenuto comune mi guardava negli occhi, voleva comunicarmi qualcosa con quello sguardo, mi voleva dire qualcosa che il secondino non doveva sentire. Oppure era semplicemente affascinato: ai suoi occhi ero un tipo duro che era stato rinchiuso nel braccio della morte.

        Rimasto solo, iniziai svogliatamente a frugare nelle borse, non tanto per vedere se mi mancasse qualcosa, ma alla ricerca del Vim che avevo appena comprato con l'intenzione di alleggerire la pestilenza della latrina. Tra i vestiti trovai il poster grande delle montagne di Aralar, ripiegato in quattro. Non lo dispiegai, non lo appesi alla parete. Sarei stato poco tempo in quella cella, per quale motivo avrei dovuto abbellirla con immagini di luoghi dove che non avrei mai più calpestato? Mi rimaneva poco tempo da passare in carcere, avrei dovuto dire. Accesi una sigaretta e, senza avvicinarmi alle sbarre, mi sdraiai sulla branda.

        Di buon mattino la Guardia Civil ti preleva e ti porta al cimitero in un furgone. Nessuno ti parla, tutti ti odiano; o li hai obbligati a svolgere un lavoro che non è il loro, o si sono presentati volontari per giustiziarti. La fucilazione è l'unico tipo di esecuzione che deve essere completato: forse avrei sentito il rumore dei passi del gran ratto, mi si sarebbe avvicinato sotto forma di lucido stivale da ufficiale e mi avrebbe dato il colpo di grazia proprio come io gli avevo sputato. No, sull'orlo della morte gli avrei sputato di nuovo. Avrei dovuto essere contento di essere stato condannato alla pena capitale. Il nemico mi voleva ammazzare, il nemico mi avrebbe dovuto ammazzare. Dovevo esserne orgoglioso, ero arrivato al massimo grado della lotta, proprio come te. Non avrei accettato che mi bendassero gli occhi. Avrebbero cercato di spararmi alle spalle, chiaro, ma all'ultimo istante mi sarei girato e avrei gridato il mio evviva, sembrava che non tappassero mai la bocca al condannato.

        Sentii la sirena della cena e, mentre il secondino apriva la porta, disposi le coperte sopra il letto. Quando le stesi, trovai un pezzo di carta, ripiegato. Lo nascosi subito in tasca perché sentii rumore di chiavi. Mi ordinarono di scendere a cena. Al mio ritorno in cella avrebbero potuto perquisirmi e così, mentre cenavo, lessi la nota scritta dallo stesso detenuto comune che avevo visto prima, lo dedussi dagli errori di ortografia. Non passai a nessuno quel biglietto, finì nel secchio dell'immondizia con la spazzatura che ci davano per cena.

 

 

Il giorno dopo, in cortile, invece di camminare a coppie o in gruppi di tre come al solito, rimanemmo tutti assieme: non volevano lasciarmi solo, volevano trasmettermi il loro calore. Attorno a me tutti parlavano ma nessuno si rivolgeva direttamente a me. Sembrava avessero paura di dire qualcosa fuori luogo, non osavano chiedermi se avevo bisogno di qualcosa, offrirmi una sigaretta, dirmi che avevano una visita. Per alleggerire l'atmosfera, raccontai loro la proposta del mio avvocato. Tutti risero.

        — Il Papa, in ogni caso, chiederà a Franco che annulli la pena di morte. Roma mi utilizzerà per i suoi interessi. Ma è molto probabile che un regime ultracattolico non presti attenzione alla richiesta del Papa.

        Cominciarono a dirmi di non pensare a queste cose. Il vecchio Generale avrebbe avuto delle giornate molto lunghe. Il nemico doveva essere più preoccupato di noi, quello volevano farmi credere. Come altre volte, fu Mateo a riportarci con i piedi per terra.

        — La sospensione della pena di morte potrebbe essere interpretata più come un sintomo di debolezza del regime che come un gesto di rispetto verso Roma...

        Non si pentì di averlo detto, gliene ero grato, gli ero riconoscente per la sincerità. Rimanemmo muti in una lunga pausa. Eravamo riuniti in mezzo al cortile, avevamo smesso di scaldarci le mani con l'alito. Eccetto Mateo ed io, tutti erano allarmati.

        — Ma non dimentichiamoci che li abbiamo obbligati a mostrare le loro contraddizioni interne! —disse non so chi, sicuramente qualcuno che non poteva sopportare la freddezza di Mateo.

 

 

Tutta la prigione stava dalla parte dei prigionieri politici baschi, l'invisibile solidarietà che esiste tra i detenuti si avvertiva più solida che mai nelle grida notturne di chi stava nelle celle di punizione, nelle notizie che ci davano quelli dell'economato, nell'inquieta rigidità dei carcerieri. Benché non ci fosse nessuno con condanne lunghe, in quel momento quasi tutti erano disposti a rischiare la loro vita per la mia. Quelli della cucina ci avevano detto che c'era la possibilità di nascondere delle armi nel camion della spazzatura. Patxi diceva che non potevo andare al mattatoio come un vitello. Dovevamo ribellarci, lottare e morire nella lotta, trasformare la prigione in un olocausto: era il migliore esempio che potevamo dare al nostro popolo.

        — Dobbiamo lottare fino alla fine!

        Fu allora che Mateo si infuriò per la prima volta, dicendo che forse non ci rendevamo conto della facilità con la quale il potere avrebbe manipolato la nostra azione. «Hanno sollevato una rivolta perché il condannato non era in grado di affrontare la morte». Le parole di Mateo zittirono tutti a lungo.

        — Il nostro popolo sa che noi siamo dei gudari! Qualunque cosa facessimo sarebbe capita e accettata, la manipolazione del Generalissimo non attecchisce nella nostra terra!

        — Mateo ha ragione —dissi bruscamente, stroncando la proposta di Patxi—. Con questo processo la nostra lotta ha superato i confini del Paese Basco, forse non tutto il mondo, ma almeno una parte ci guarda. Ora dobbiamo mostrare come muoiono i veri rivoluzionari. E' toccato a me, ma sarebbe potuto essere chiunque altro. Non dovevamo forse far vedere al popolo quant'è feroce il nemico?

        I giovani che sarebbero diventati militanti, il paese, il mondo, tutti avevano gli occhi puntati su di me. Il Generalissimo mi offriva una vetrina straordinaria, se io avessi avuto il coraggio sufficiente per approfittarne: sarei dovuto morire tra gli artigli del nemico, come giustamente diceva Mateo. Avrei dovuto mostrare al mondo la risata sadica del gran ratto. Ed il mondo si sarebbe allarmato.

        Gli altri non sapevano che, lo stesso giorno in cui mi avevano comunicato la sentenza, i secondini si erano riuniti in una stanza dei laboratori che erano sempre chiusi, per pulire e lubrificare un catafalco di ferro che da anni era conservato tra i sacchi. Non sapevano che sarebbe stata un'agonia che non assomigliava affatto a quella della fucilazione, ma che mi attendeva la forca spregevole, il crudele patibolo, la gogna insultante, la garrota vile, proprio come Angiolillo.

        Tenni per me quello che avevo letto nel biglietto lasciatomi dal detenuto comune, non osai dire niente agli altri. Forse non era vero, forse era un tiro mancino dei secondini per spezzarmi il morale. Ma quella possibilità era molto remota, una voce interna mi diceva che il Generalissimo non voleva darmi una morte militare, che mi voleva degradare al livello di un delinquente comune: non mi avrebbe permesso di andare fino alla parete del cimitero mano nella mano con i patrioti morti.

 

 

Non mi arrampicai sulle sbarre, ognuno di quei «Viva Euskadi»! che si sentivano lontano mi causava dolore, mi feriva in profondità. La pena di morte eseguita con la garrota avrebbe dimostrato quant'è barbara la Spagna, ghigliottina non affilata, patibolo crudele, sedia elettrica del Medioevo, cerimonia dell'Inquisizione. Ed io ero l'agnello sacrificale. La testa del gran ratto si vedeva sempre più frequentemente nel buco della latrina e dovevo continuare a pensare a te per poterlo guardare senza arretrare. Avevo bisogno dell'esempio dell'idealista che nella prigione di Bergara aveva salito gli scalini del patibolo con orgoglio. Pensavo a te. Pensavo a Txabi. Io non volevo morire. Avrei voluto essere già morto. Come il mio compagno di commando crivellato dentro un'automobile sportiva rubata, con in mano una vecchia pistola che avrebbe dato inizio alla nostra terza guerra.

        Mi faceva paura il patibolo, mi spaventava il fatto che da quel «Evviva i proletari del mondo» fino al momento della morte non ci fosse una scarica di un secondo, bensì l'asfissia di lunghi minuti. Ai gudari non viene applicata la garrota. Con noi non c'era quella tradizione, quella era la fine riservata agli anarchici. Mi avrebbero vestito con una tunica in modo che la sporcizia dei miei sfinteri non rovinasse l'estetica della crudeltà? Sarei morto con la lingua penzoloni, la bava alla bocca, gli occhi fuori dalle orbite, segni di panico sul viso cianotico? Io non volevo morire così, Lilio, ma allora non ebbi il coraggio di parlarne con gli altri, loro non sapevano quello che sapevo io, qualcosa che provocava panico. Lo tenni per me, terrorizzato, ed è stata una delle azioni più belle che abbia mai portato a termine. Condivisi quel segreto solo con te.

        Mi alzai dalla branda, lanciai bruscamente la sigaretta e mi diressi verso il ratto sudando freddo. Non avevo ancora fatto due passi che era già fuggito, il vigliacco. Scaricai un cazzotto sulla parete, per farmi male. Riaprii la mano insanguinata facendo forza contro il muro, non mi ero rotto niente. Cercai con le dita un nome, come avevo fatto sulla sporca parete del carcere di Bergara. Non lo trovai. Allora, con un uncino che tenevo per aprire la porta della cella, incisi profondo il tuo nome piangendo di rabbia. Ti chiedevo forza un'altra volta, era la tua mano quella che di nuovo incideva un nome sulla parete della cella numero tredici della prigione di Burgos, affinché il successivo inquilino della morte trovasse la forza per sognare. Perché i nomi sulla parete di una cella sono come un compagno che si siede al tuo fianco.

 

 

 

© Koldo Izagirre
© Traduzione: Roberta Gozzi


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