Beste hizkuntzetako lanen zerrenda

  Traduzione: Roberta Gozzi

 

 

 

—4—

 

Lì, sotto il pavé che i cavalli calpestano e sporcano con noncuranza, dovevano esserci le oubliettes, le celle di punizione che si perdevano nelle profondità della Torre dei Pozzi. Le celle della dimenticanza, nella mia lingua basca «le tombe delle ossa». Le hanno chiuse affinché un giorno qualche archeologo possa scoprirle, o forse furono distrutte assieme alle otto torri. Ormai la Bastiglia non è che una piazza, un ricordo alzato sulle oubliettes. Un vero peccato. Un'emozione speciale ti avrebbe invaso nel visitare una prigione attaccata ed espugnata dal popolo, toccare quelle porte scardinate da minatori, cocchieri, tessitori, panettieri, acquaioli, poeti, dagli osti della città e dai loro clienti, sfiorare quei ceppi con una carezza solidale con la carne torturata dalla tirannia. In ogni caso pensi che forse è meglio così, meglio una bella piazza di una prigione trasformata in museo. Perché mai dovrebbe aver bisogno di testimoni della sua gloria l'unica città al mondo che è stata capace di ghigliottinare il suo re? La memoria non ha bisogno di rovine se è portatrice di coscienza.

        — Quando abbiamo ghigliottinato un re, non ne cercavamo uno migliore: volevamo che il trono rimanesse vuoto.

        — Ma il trono è ancora lì, a Versailles —osi rispondere, un po' ironico.

        — Sì, è vero... —Rochefort è sfinito, colpi di tosse secca interrompono ogni sua frase, innervosendoti—. Chissà se un giorno o l'altro la borghesia non tornerà ad occuparlo!

        La carrozza si ferma.

        — Non manca molto.

        Un omnibus attraversa la strada ed il cavallo riprende la marcia senza aspettare il grido del conduttore.

        — È una sciocchezza, ma... lo dico sempre con orgoglio: io sono nato l'anno dalla Comune di Parigi.

        Rochefort si gira verso di te, corrugando la fronte, punto dalle tue parole.

        — Una primavera, semplicemente una primavera. Di questo e non di altro si è trattato, l'anno in cui è nato Lei.

        Mentre rifletti sull'opportunità di chiedergli a quanti anni lo avevano condannato o dove lo deportarono, un sospiro del signor Rocherfort ti obbliga a riportare lo sguardo dal finestrino nuovamente su di lui.

        — Non ci sarà una vera rivoluzione finché non insegneremo agli operai, o per lo meno alla loro élite, la scienza della loro disgrazia.

        — La scienza della loro disgrazia... È un'idea molto bella, signor Rochefort.

        — È di Jules Vallés, la ripeteva sempre. Era un missionario. Guardi, siamo al Quai Bourbon. Farò fermare di fronte all'entrata: i portinai hanno più rispetto per chi scende da una carrozza che per chi arriva a piedi. Ha con sé la lettera?

 

 

A Ramón Emeterio Betances il foglio trema nella mano. Quando ha finito di leggere la lettera, la butta nel fuoco e chiama:

        — Amelia!

        Si avvicina alla porta e chiama di nuovo, in spagnolo:

        — Amelia! Porti due Chartreuse! —poi rimane a guardarti fissamente, sfilandosi gli occhiali—. Il suo viso mi sembra conosciuto.

        — Sono a Parigi da una settimana, non credo che ci siamo visti... —rispondi.

        — Si sieda —e ti porge una sgangherata sedia di vimini, dopo aver appoggiato sul tavolo i libri che la occupavano.

        — Gli amici di Henri Rochefort sono miei amici, malgrado ultimamente divergiamo... La faccenda di Barcellona è stata terribile, vero?

        Amelia è nera, grande e più vecchia dello stesso Betances. Porta i bicchieri serviti su un vassoio, senza bottiglia.

        — Salute! —Betances alza il bicchiere sopra la testa.

        — Salute! —non ci sei abituato, bagni appena le labbra. Appoggi il bicchiere sul vassoio—. Abbiamo fatto quel che abbiamo potuto contro le truppe...

        — Contro le truppe?

        — Cercando di far prendere coscienza alla gente... —correggi—, ma è molto difficile, per un verso ci sono stati molti arresti, e per l'altro gli spagnoli vivono una febbre patriottica...

        — Ma, non ci sono associazioni di vedove?

        — Ci sono poche vedove, li portano via molto giovani... Volevamo fare qualcosa con le madri e le sorelle. Ma la Penisola è molto difficile. Comunque posso dirle che abbiamo infiltrati nell'esercito, lì, sull'isola, e stiamo lavorando per fare avanzare le idee socialiste.

        — La propaganda va bene, ma... l'attentato fallito contro Weyler è stato un gran errore... —si passa le mani nei capelli bianchi, crespi, spostando indietro la sedia con il corpo e sospirando visibilmente—. Nei villaggi di concentramento la gente muore di fame, le nostre truppe non possono ricevere l'aiuto dei contadini cubani e, anche se prendessimo tutta l'isola, L'Avana è molto difficile per non dire inespugnabile. Le informazioni erano giuste, l'attentato era stato preparato bene, ma la dinamite ci ha traditi. Sembra che l'abbiano fatto apposta...

        — Apposta? Che cosa intende dire? —non è la prima volta che senti questa interpretazione, ma la domanda ti scappa alquanto secca.

        — Weyler ha messo in atto una repressione mai vista finora, ha le mani più libere di prima, ha l'appoggio anche dei più liberali di Madrid. Sembra un attentato preparato dagli spagnoli stessi, uno stratagemma. Non sarebbe il vostro unico grande errore.

        Un bruciore sempre più noto ti risale dagli intestini, una vampata soffocante fino al viso, la rabbia per non potere criticare la goffaggine dei tuoi compagni.

        — Benché me ne dispiaccia, sappia che l'attentato del Corpus Domini a Barcellona è stato opera nostra; non è stato pianificato dalla polizia.

        — Disgraziatamente sembra il contrario.

        Allunghi la mano fino al bicchiere. Lo agiti, parli guardando i riflessi del liquido, come un bambino incantato.

        — Chi è disposto a dare la vita, in un certo qualmodo, è cieco.

        Lasci il bicchiere senza portarlo alle labbra.

        — Quelli dell'Avana non erano ciechi, ne sono usciti vivi. —Fa una pausa graffiante. Betances sarebbe stato un buon attore—. E adesso è molto più difficile neutralizzare Weyler.

        — Forse non è lui che bisogna neutralizzare —la tua mano si posa sui libri. Sono edizioni di New York, in spagnolo. Non raccoglie la tua insinuazione.

        — Pensa di trattenersi a lungo? Ha un lavoro fisso?

        — Lavoro a L'Intransigeant, sono tipografo di professione. Ma non rimarrò qui a lungo.

        Betances batte sul ginocchio con la sua ossuta mano e si alza con un gran sorriso sulle labbra.

        — Adesso so dove l'ho già vista! Non era forse lì, in prima fila, alla conferenza del signor Kropotkin, a prendere appunti di fianco al signor Rochefort?

        — Sì —alzandoti—, dovevo prendere appunti sulla conferenza per la rivista.

        — Sa il francese?

        — Sì, ho vissuto a Marsiglia... Ma ho preso appunti in stenografia.

        — In stenografia? Ma non mi ha detto di essere tipografo?

        Ed allora sei tu a ridere.

        — Alle redazioni arrivano molte note e interviste stenografate e non c'è tempo per passarle al linguaggio alfabetico, un buon tipografo deve conoscere la stenografia. Ma la stenografia non era indispensabile: conoscevo la conferenza a memoria.

        — Conosceva la conferenza a memoria? Lei sapeva quel che il signor Kropotkin avrebbe detto? —gli occhi sono più bianchi che mai sul viso scuro di Betances.

        — Sì... Ha ripetuto quasi alla lettera quello che aveva pubblicato su Paroles d'un Révolté.

        — Però! Un nuovo ordine in un Bibbia vecchia! —ed il mulatto scoppia in una risata—. Furbo, il signor Kropotkin!

        — Chissà... —anche tu abbozzi un sorriso di cortesia—. In ogni modo, gli era proibito dire qualcosa di nuovo... Si sarà reso conto che non ha nominato la Comune.

        — Già, la Comune! Neanche questa è una novità. Vedo che a Lei non piace il mio Chartreus, ma suppongo che come tipografo apprezzerà i libri, venga.

        Ti guida nella penombra della casa prendendoti sottobraccio.

        — E chi bisognerebbe... neutralizzare, secondo Lei?

        Sicuramente siete penetrati nel territorio di Amalia, tant'è che Betances passa all'inglese. Anche tu continui la conversazione nella stessa lingua, non senza difficoltà.

        — Il signor Rochefort non condivide la mia analisi, ma lui è francese. Vorrei sapere cosa ne pensa un cubano.

        Betances ride di nuovo, ti batte la mano sulla schiena come ad un compagno di taverna, prima di aprire una pesante porta a due battenti.

        — Io non sono cubano, ragazzo! Sono portoricano!

        Amelia è in biblioteca e, avvolta in una coperta, sta leggendo vicino alla finestra. Non si alza quando appare il padrone di casa. Ti guarda da sopra gli occhiali, proprio come eri solito fare tu.

 

 

I giornalisti, una volta ascoltate le dichiarazioni degli accusati, avevano abbandonato la sala: non avevano il minimo interesse per quanto potesse dire un testimone morale e, a dire il vero, la mia morale per loro non era molto rispettabile. Erano lì per inviare le loro cronache dall'entrata del Palais de Justice, con i loro telefoni cellulari. Tutto era finito, nel giro di un mese i miei compagni sarebbero stati condannati per tutta la vita. Con queste parole avevo iniziato la mia dichiarazione: «Se la pena di morte fosse vigente oggi, nel 1997 in Francia, queste teste rotolerebbero sotto la ghigliottina, ma il problema basco continuerebbe a rimanere irrisolto, signor giudice. Anch'io sono stato condannato a morte —gli avevo detto guardandolo fissamente— ma Franco sapeva che ammazzandomi sarebbero sorti nuovi combattenti, per questo motivo ha dovuto lasciarmi in vita. Tuttavia, benché mi abbia lasciato in vita, sono cresciuti questi giovani che voi oggi volete condannare, disposti a lottare contro chi opprime il mio paese.» Il tribunale mi ascoltava sbadigliando, era già tutto deciso, la mia dichiarazione non serviva ad altro se non a salutare qualche vecchio compagno dietro il vetro blindato. Sono uscito per strada triste, benché sapessi bene perché ero venuto e che cosa sarebbe successo. Ho attraversato il Pont du Change, camminando in un meraviglioso imbrunire.

        — Ha qualche edizione di Germinale?

        — Ne ho una del 1923.

        —Non ne ha una del secolo scorso, anteriore al 1897?

        Il venditore di libri mi ha guardato dall'alto in basso come prima aveva fatto il presidente del tribunale.

        — Mi scusi, signore, ma un'edizione di Zola di cento anni fa vale parecchio denaro.

        Anche i tuoi occhi erano caduti su un libro di Zola: quell'ultima edizione illustrata di Germinale che Betances ti aveva mostrato e non ti aveva regalato, e che io non avevo denaro per comprare. L'avevi presa in mano, era un buon lavoro, stampato nei nuovi caratteri Garamond con interlinea doppia. Inaspettatamente, una nota dell'autore, che non ricordavi di avere letto nell'edizione italiana, ti aveva colpito: «Volevo un titolo che mostrasse il coraggio dei nuovi uomini, lo sforzo che i lavoratori fanno, benché in modo incosciente, per uscire dalle tenebre... E un giorno, senza volerlo, è affiorata alle mie labbra la parola Germinale. All'inizio non mi piaceva, la trovavo troppo mistica, troppo simbolica; ma esprimeva ciò che io cercavo, un aprile rivoluzionario, il volo della vecchia società verso la primavera». Anche tu ti eri poi fermato a guardare il fiume e, preso dalla tasca il tuo coltellino, avevi iniziato a pulirti le unghie. Forse Rochefort aveva ragione, i disgraziati del mondo dovevano imparare una nuova scienza. Ma la stagione delle ciliegie non sarebbe arrivata solo attraverso la scienza. Dove avevi letto, anche tu, che dal tanto filosofare sulla libertà l'uomo si fa schiavo? Le Tuilleries in fiamme, un momento apocalittico diretto dal regista clandestino della rovina universale che manipola l'umanità selvaggia, ubriaca, impazzita, per usare la terminologia dei contro-ideologi della Comune. La distruzione di tutti i Liceu. Una bandiera rossa lunga come la Senna. Ascolta, arrivano gli operai, vengono a sgozzare tutti quelli che vivono del nostro sudore, creeranno una nuova società dopo aver annichilito le truppe di Thiers, Versailles in fiamme. Ed in mezzo al popolo insorto, anch'io avrei voluto essere un Élisée Reclus: unito agli scamiciati della Comune col mio fucile in spalla. Ma siccome odio ammazzare, siccome metto l'umanità al di sopra di tutti i valori, siccome vorrei essere un anarchico coerente, lo avrei portato scarico. Cammino con voi, ma io non sono dei vostri. Txabi non ha avuto un'opportunità di questo tipo, non c'era una moltitudine all'interno della quale nascondersi, lui ci ha insegnato che eravamo pochi e che avremmo dovuto fare la nostra parte e anche quella di molti altri. Quando il popolo si solleverà, metteremo le mani in tasca e la vecchia Astra nella quale si erano imbattute non sarà altro che un ricordo. È un riassunto perfetto, è una bella immagine, è una lezione morale rigorosa, è il grado più alto di un'azione estetica, perché Élisée Reclus fu arrestato e condannato a morte. Il mondo salvò il gran saggio affinché potesse analizzare il nostro caso. Secondo lui, i baschi erano «un peuple qui s'en va», l'anno in cui ti ammazzarono. Sarei dovuto tornare al Palais di Justice, avrei dovuto chiedere all'arrogante giudice presidente del tribunale qual è l'azione estetica liberatrice di un popolo che non vuole morire, quale sarebbe l'inoffensivo bel gesto che vale una pena di morte. Allora ho deciso, guardando quel fiume che nasce dal collo di Robespierre che, non avendo le capacità per fare altro, avrei per lo meno scritto un libro che mi sarebbe valso una piccola condanna.

 

 

 

© Koldo Izagirre
© Traduzione: Roberta Gozzi


www.susa-literatura.eus