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  Traduzione: Roberta Gozzi

 

 

 

Capitolo 2

BALENA IN VISTA!

 

«Balena in vista! Balena in vista!» gridava il talaiero.

        All'udire le sue grida, i pescatori si svegliarono di soprassalto e, sebbene fino a quel momento il porto fosse stato tranquillo, la notizia dell'avvistamento della balena portò uno scompiglio tale da far levare i morti dalle tombe.

        Zio Juan e io ci trovavamo nel bacino di carenaggio per calafatare la barca. L'autunno era appena iniziato e stavamo preparando tutto il necessario per le ultime uscite in mare dell'anno. Nei giorni a venire avremmo iniziato la pesca del pagello ma, posti di fronte alla notizia dell'avvistamento di una balena, i pagelli sarebbero potuti rimanere dov'erano!

        In un istante, molti degli uomini presenti si affannarono per spingere in mare l'imbarcazione vicino alla nostra, che zio Juan aveva già iniziato a preparare nonostante non potesse utilizzare il braccio sinistro.

        «Forza ragazzi» gridò lo zio.

        E in quel momento il rintocco della campana della cappella sostituì la voce del talaiero. Non so se ci fosse ancora qualcuno in paese che non sapesse della balena, ma in ogni caso non sarebbe rimasto a lungo all'oscuro della notizia.

        A dire il vero, si potevano sentire i rintocchi della piccola campana della cappella anche in occasioni come un incendio ma, questa volta, la campana diffondeva nel vento un suono speciale. In esso mi parve di udire: Ba-le-na! Ba-le-na!. In quel modo di suonare la campana, uno-due-tre, ba-le-na, uno-due-tre, riconobbi la mano del mio amico Doro. E come avrei potuto non riconoscerlo, se ero stato proprio io a insegnarglielo!

        «Ragazzo, vai di corsa dal talaiero e chiedigli da che parte ha visto la balena» mi ordinò lo zio.

        Per poco non mi misi a correre scalzo, perché sentivo il cuore in gola e sul punto di scoppiarmi.

        «Mettiti le scarpe, figlio mio!» così mi chiamò in quel momento lo zio: figlio mio, e per questo mi resi conto che era fuori di sé. «Chiedi a Simon anche quante balene ha visto. E ti voglio qui di nuovo immediatamente, come un lampo.»

        Mi gettai precipitosamente su per la salita verso la talaia. Non appena mi trovai fuori dalla vista dello zio, mi tolsi le scarpe: scalzo sarei arrivato molto prima.

        Sulla strada per la talaia, senza fiato e con il cuore che mi batteva forte in petto, nella mia mente si sovrapponevano immagini e fantasie di ogni tipo. Sentivo in me una confusione maggiore di quella provocata tra la gente dal toro di fuoco della festa di san Pietro. Chi aveva visto per primo la balena? Simon il talaiero oppure i frati del convento? Quello era il mio cruccio principale.

        I frati vivevano nel convento che si trovava sull'isola e conducevano una vita molto austera. Tuttavia su quell'isola, l'isola di Izaro, avevano un punto di avvistamento migliore rispetto a quello di cui disponevamo in paese. Spesso ci avvisavano di quanto succedeva in mare, utilizzando una delle molte arti che conoscevano per fare segnali ­ e che voglio credere conoscano tutt'oggi. A seconda che scorgessero all'orizzonte una tormenta, il nemico, una balena o quant'altro, i frati facevano un segnale oppure un altro. È inutile dire che, dipendendo dalla stagione, in inverno o d'estate, utilizzavano il fuoco o un pezzo di tela, giacché in inverno, per esempio, il fuoco è più visibile della tela, mentre d'estate, nel rovente riverbero dell'afa, quando la calura infiamma, come si usa dire, tutta l'atmosfera, nessuno è in grado di vedere se c'è del fuoco sull'isola.

        Se fossero stati i frati ad avvistare per primi la balena, avremmo dovuto consegnare loro una buona porzione della preda. Ma la cosa peggiore non riguardava le proporzioni della loro parte, quanto piuttosto il fatto che avremmo dovuto consegnare loro le ossa migliori, e sono certo che queste mie ultime parole stupiranno più di una persona, soprattutto tra quanti poco conoscono la pesca delle balene.

        Dovrò, pertanto, spiegare che le ossa di balena erano molto apprezzate nella nostra comunità, perché si utilizzavano per costruire una moltitudine di oggetti di ogni tipo. Anche lo sgabello che io utilizzavo da piccolo ­ e sono sicuro che sarà ancora in casa ­ l'aveva costruito e gli aveva dato forma per me, con un osso di balena, quell'uomo da tutti conosciuto come il Mancino. Quell'uomo, oltre a essere un provetto pescatore, era anche un abile artigiano; da quando mio padre era morto, soleva fermarsi a lungo davanti all'uscio della nostra modesta casa a conversare con mia madre. Aveva fama di essere un po' pazzo, la qual cosa mi faceva paura. Delle molte cose che si raccontavano sul suo conto, potrei iniziare con il dire che il Mancino viveva in una piccola soffitta, come i gatti e, proseguendo, devo riconoscere che, quando la gente iniziava a parlare di lui, raccontava e raccontava senza smettere. Dicevano anche che gli piaceva bere e, come potete immaginare, i suoi abiti logori e raffazzonati e i suoi modi da pazzo ne pregiudicavano l'immagine. Era spesso in miseria, anche se non sempre.

        Una volta me lo trovai non sull'uscio, bensì dentro casa, ben vestito. Ero ritornato dal porto inaspettatamente e avevo trovato il Mancino e mia madre in cucina. Mi colpì molto non solo vedere lei con le guance rosse e sentire la sua voce tremare, ma soprattutto lui, sempre trasandato e maltenuto, quel giorno invece ben vestito e sbarbato. Mi ci sarebbe voluto del tempo per capire cosa ci facesse lì quell'uomo con fama di pazzo, solo con mia madre, apparentemente per una normale visita.

        «Come sei cresciuto, ragazzo! Quest'ometto ormai ha bisogno di una sedia solo per lui, no?» disse il Mancino e poi, rivolgendosi a mia madre, aggiunse qualcosa che mi lasciò a bocca aperta: «A presto, Brigida.»

        Brigida! In casa nostra nessuno chiamava mia madre con il suo nome; tutti, incluso lo zio e la stessa Ebora, la chiamavamo madre. Sentii nel mio cuore una nuova oppressione, ma non durò a lungo; di lì a pochi giorni, il Mancino aveva già ultimato la piccola sedia e, con quel lavoro d'artigiano, placò tutte le mie preoccupazioni. Pare che anche i frati fossero abili quanto quel fine artigiano e, ammesso che fosse vero quanto era giunto fino alle mie orecchie, nel convento di Izaro, oltre agli sgabelli, anche gli stipiti delle porte delle celle e quasi tutti i mobili erano fatti di osso di balena.

        Maledissi quei frati, per quanto non fossi sicuro che fossero stati loro ad avvistare la balena. Poi mi rallegrai, perché pensai che, se fosse stato Simon a vederla per primo, la balena sarebbe stata tutta per noi! E afferrandomi con tutte le mie forze a quel pensiero che mi riempiva di gioia, scivolai e finii con il sedere per terra, e presi una bella botta.

        Arrivai zoppicando da Simon. In quel momento mi portai le mani dietro la schiena e scoprii un enorme squarcio nei miei pantaloni. Me ne avrebbe dette delle belle, mia madre! In ogni modo, ben presto avrei avuto il necessario per comprarmi non solo dei calzoni nuovi ma anche una camicia e un cappello, e tutto grazie alla balena. Finalmente giunsi alla baracca di Simon il talaiero, che per noi era il luogo più misterioso del paese.

        Com'ero fortunato a poter vedere quella specie di capanna così da vicino! La parte anteriore era aperta e un piccolo tavolo che fungeva da porta sbarrava l'entrata, dal suolo fino a metà della sua altezza. Appoggiata a una parete c'era la stufa, proprio in mezzo, tra la botticella della pece e la legna. In due mucchi separati c'erano rami di corbezzolo e altri di alloro, molto adatti per produrre un grande fumo; Simon aveva tutto a portata di mano per i segnali. Continuava a guardare con il cannocchiale, controllando con attenzione e cura ogni movimento della balena.

        Quell'uomo a noi incuteva paura perché diceva che se ci avesse trovati da quelle parti ci avrebbe castrati. Noi, benché ancora non sapessimo cosa significasse castrare, sospettavamo che, dietro quella parola, si nascondesse qualcosa d'infernale. Pensandoci quasi ottant'anni più tardi, devo riconoscere che Simon agisse con sagacia, giacché non c'era peggiore nemico per il suo lavoro che noi, i bambini; eravamo capaci di toccare, prendere in mano e rompere qualunque cosa, perfino dar fuoco alla baracca.

        Simon era un profondo conoscitore dei venti, sapeva dove ognuno di essi aveva origine, sapeva che tipo di fuoco si produce con ogni nebbia, capiva il significato di ogni brinata, il tempo per lui non aveva segreti. Tutte le mattine, prima di uscire in mare, i marinai di vedetta delle imbarcazioni e molte volte anche i capitani e gli armatori, si recavano fino alla talaia per ascoltare la sua opinione. Se Simon diceva di non imbarcarsi, quel giorno nessuno usciva, in altre parole "non si prendeva il mare"; se invece diceva di imbarcarsi, tutti uscivamo in mare. Non era un compito semplice il suo! Sarà stato per quello che era sempre più scuro di un temporale? Per fortuna quel giorno, mentre mi avvicinavo al suo capanno, sembrava contento.

        Aver visto la balena doveva avergli cambiato l'umore, perché invece di usare quel tono burbero che gli era consueto, mi ordinò quello che dovevo fare più cordialmente e con gentilezza, quasi fosse un altro uomo.

        «Sono due: madre e figlio, secondo la mia opinione. Di' allo zio che sono stato io ad avvistarle per primo, non i frati. Digli anche che quelli del porto di Bermeo sono già partiti per Izaro e anche quegli altri più in là, quelli di Elantxobe, l'hanno vista, ne sono certo.» Per un istante la tormenta scosse Simon da dentro e prese di nuovo a parlare aspramente, imprecando: «Quei maledetti frati stavolta hanno avvisato i vicini!»

        Al sentire le maledizioni di Simon mi spaventai e retrocedetti. Usciva del fuoco da quegli occhi da pellicano del talaiero. Per noi, voglio dire per i giovani di allora, Simon era l'uomo più ammirato del porto. Il gabbiano a volte può sbagliare quando, visto il pesce sotto di lui, si lancia in picchiata a catturarlo; il pellicano non sbaglia mai. O non è forse vero che la nostra vita dipendeva da quel che vedevano gli attenti occhi del talaiero? Per questo lo paragonavamo al pellicano, l'uccello marino che dimostra di possedere la vista più acuta.

        A quei tempi, in cui tutti in paese avevano un soprannome, tutti i giorni avevamo qualcosa di nuovo da fare, e tutti i giorni discutevamo della stessa cosa. E la nostra discussione preferita riguardava chi fosse a comandare in paese.

        «È il governatore quello che comanda» rammento quel che diceva sempre Peru di Arene quando, in primavera, al porto, andavamo alla ricerca dei nascondigli delle rane.

        «Sì, certo!» Era solito rispondergli un altro che, come me, si chiamava Sebastian, Sebas per distinguerlo, e che era sempre arrabbiato. «Il governatore potrebbe cantare messa se non fosse per quello che gli dà la corporazione!»

        «Ma cosa dite, ragazzi? Mi piacerebbe sapere che diavolo potrebbe mai dare il maiordomo* al governatore, se il talaiero non avesse visto la balena!» dicevo io, facendo mie le parole che avevo udito dalla bocca di mio zio, con la sicurezza del bambino che ha fretta di crescere.

        Non trovavamo mai le pozzanghere delle rane, ma non c'importava troppo. Volevamo diventare grandi per dimenticare quelle faccende ed essere uomini. In questo senso, quasi tutti desideravamo essere come Simon il talaiero, benché quelle sue imprecazioni non andassero molto d'accordo con i sermoni che ascoltavamo in chiesa e che mi incutevano un certo timore. D'altra parte, però, è certo che consideravo il talaiero un gran peccatore, in un'epoca in cui io vivevo nel terrore dei presunti castighi dell'inferno. Ormai da qualche tempo, per fortuna, quella paura mi è passata; sono giunto a capire che tutte le fedi hanno bisogno del peccato, come spiegherò più avanti. Ma allora, quando sentivo quelle parole, mi si formava dentro un nodo spaventoso.

        Come se l'avessi davanti agli occhi in questo momento, ho ancora viva l'espressione del suo volto, quella del pellicano pronto ad alzarsi in volo, avvicinarsi al convento e cominciare a colpire con il becco tutti i frati fino ad ammazzarli. Nonostante tutto, penso che, se da qualche parte esiste quel paradiso che tutte le fedi ci promettono, là deve trovarsi Simon.

        Quel giorno tutti eravamo in debito con Simon il talaiero, e si trattava di un debito di non poco conto, giacché grazie alla sua vista avremmo potuto toccare il cielo con un dito. Non bisogna dimenticare che i frati di Izaro, quando vedevano una balena, erano soliti avvisare prima le genti di Bermeo; essendo essi coloro che, come già ho detto, con maggior facilità e senza sforzo, erano in grado di avvistare una balena al largo, potevamo considerare quasi un miracolo che Simon stavolta avesse visto le due balene per primo. In realtà non ci fu nessun miracolo: i frati, a quell'ora del mattino, erano probabilmente ancora raccolti in preghiera, o forse le balene erano apparse da dove nessuno se l'aspettava. Chi lo sa! Per fortuna il talaiero passava le notti nella sua capanna e l'alba non lo coglieva mai di sorpresa. Nemmeno la balena che Dio inviò a Gionata avrebbe potuto cogliere alla sprovvista Simon.

        «Che ci fai ancora qui, moccioso?» per poco Simon non mi mangiò. «Corri al molo immediatamente, come una saetta, e non lasciarti scappare nemmeno una delle parole che ti ho detto finché non arrivi da tuo zio!»

        Mi ero già dimenticato del dolore al fondoschiena. Scesi correndo. Arrivai alla rampa e quando ormai avevo raggiunto zio Juan, ne combinai una delle mie: senza volerlo, diedi un calcio al paiolo di pece bollente e lo rovesciai. Tutta la pece andò a spargersi sul suolo. Che giornata, quella in cui furono avvistate le balene: i calzoni strappati, la pece andata persa... quale sarebbe stata la disgrazia successiva? Credo che anche zio Juan temesse che io portassi sfortuna, ma non avevamo tempo da perdere in quelle sciocchezze.

        A quel punto era già in mare la prima imbarcazione salpata alla caccia delle balene, e la nostra Maria Angeles era l'unica pronta per uscire in mare senza attendere un secondo in più. Sebbene in altre occasioni ognuno uscisse con la propria barca, in quel momento era necessario fare le cose in fretta. Da qualche tempo la miseria regnava nelle nostre case e pertanto l'unica nostra preoccupazione era impedire, a ogni costo, che la balena ci scappasse.

        Gli uomini, fino a quel momento, avevano caricato i soliti strumenti per la pesca e, trovandosi quelli necessari per la caccia della balena nel magazzino, ordinarono ai ragazzini della mia età di andare a prenderli. Lì trovai Sebas e Doro, che correvano giù verso i magazzini. Tutti e tre assieme caricammo sul peschereccio, in fretta e furia, i ramponi, le funi, il grasso per ungere il tutto, remi, forti stroppi, e altri oggetti che si utilizzavano in tali occasioni.

        A quell'ora del mattino la marea era bassa. Dal momento che avremmo dovuto spingere con la forza la barca fino all'acqua, non si decise fino all'ultimo momento chi di noi sarebbe salito in coperta e chi sarebbe rimasto a terra, pensando che coloro che non si sarebbero imbarcati sulla Maria Angeles avrebbero immediatamente preparato altre imbarcazioni.

        Non avrei in ogni caso dato importanza a quello che avrebbero deciso; avevo giurato a me stesso che, a qualunque costo, sarei salito sulla Maria Angeles che stava salpando verso la balena, la stessa sulla quale per tanti anni aveva navigato mio padre. Volevo dire addio alla maledetta scuola giacché, nonostante la frequentassi poco, non mi piaceva per niente. Il prete ci rammentava, in basco, quanto fosse importante parlare correttamente il castigliano, e poi s'impegnava con tutte le sue forze e aiutandosi con un nerbo, a far entrare nelle nostre dure teste quella lingua del demonio. Stava per aver termine quel giorno la sofferenza della scuola. Nascosto tra un'altra dozzina di persone, senza che nessuno mi dicesse niente, facendo forza con mani e spalle, anch'io spinsi la nostra Maria Angeles in mare. La mia decisione era irremovibile, come quella imbarcazione.

        «Ragazzo, prendi un remo e mettilo sotto la barca, sotto la chiglia, altrimenti s'incaglierà nella sabbia!» mi ordinò Bittoriano.

        Quel vecchio appassionato di baccalà e tori pensava che, fra tutti i presenti, io fossi quello che faceva meno forza, perciò disse a me di infilare il remo sotto la chiglia, un lavoro che di solito fanno i bambini, mentre gli altri spingevano. Non si era reso conto che anche Doro e Sebas si trovavano lì. Oltre a loro due, c'era più di una persona che, in quanto a muscoli e forza, era sicuramente più debole di me, ma dovetti star zitto. Tacere e obbedire, perché quegli uomini avevano le mani facili con quelli che consideravano ancora dei mocciosi da latte, come me. In modo particolare Bittoriano, il quale, nonostante avesse fama di torero, era molto più abile nel dare scapaccioni a noi che nel prendere per le corna i torelli durante le feste del paese.

        Il remo assolse alla funzione di rullo. L'imbarcazione cominciò ad avanzare; a ogni spinta che gli uomini davano, la chiglia, facendo rollare il remo che si trovava sotto, si muoveva con più facilità che sulla sabbia e le pietre. Dovevo fare molta attenzione, perché occorreva sfilare il remo quando, rotolando sotto la chiglia, arrivava fino alla prua e rimetterlo sotto la poppa non appena questa risaliva dall'acqua. Anche le mani correvano un certo pericolo nel realizzare quell'operazione, ed è inutile dire che io nel frattempo avevo già ricevuto alcuni calci giacché gli uomini che, gridando, facevano forza, non prestavano molta attenzione a quello che si muoveva tra le loro gambe, essendo per loro indifferente che fosse una pietra o la testa di qualcuno.

        «Forza gente! Op!» disse lo zio, gridando, mentre spingeva con un solo braccio.

        L'acqua bagnò la poppa. Simon il talaiero si stava consumando la gola a gridare: «In fretta! In fretta! Svelti!»

        La Maria Angeles non era una baleniera e nemmeno un'imbarcazione molto grande, per quanto ci fosse spazio sufficiente per due alberi; non era di un tipo preciso e nessuno poteva dire per quale genere di pesca fosse adatta; più grande di una scialuppa e delle altre barche della baia era stata usata per carichi e da rimorchio. Ma dopo la morte di mio padre, lo zio l'aveva modificata in modo da poterla utilizzare nella baia, e navigavamo spesso con un solo albero. Se esisteva qualcosa per cui era adatta, era per navigare a gran velocità, ma quel giorno la nostra Maria Angeles avrebbe dovuto dimostrare che poteva servire anche a ben altro. Da parte nostra, come il talaiero aveva ordinato, avevamo portato in acqua il più rapidamente possibile l'imbarcazione, ormai pronta a partire per la caccia alla balena.

 

 

© Edorta Jimenez
© Traduzione: Roberta Gozzi


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