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  Traduzione: Roberta Gozzi

 

 

 

Capitolo 1

LA MIA TERRA

 

Mi chiamo Sebastian, sebbene ci sia stata un'epoca della mia vita durante la quale giunsi quasi a scordare il mio vero nome, e Zubileta è il nostro casato, pertanto sono Sebastian di Zubileta e, come si usa in questi casi, dovrò rivelare ora anche il luogo e l'anno in cui nacqui, prima di cominciare a raccontare, nel modo più veritiero possibile, alcuni avvenimenti della mia gioventù.

        Venni al mondo nell'anno 1571 e dirò anche in che luogo, poiché non credo, come sono usi fare molti altri, che il semplice fatto di menzionare qualcosa o qualcuno possa attirare il malocchio sul nominato.

        Non sono incline alle superstizioni, come invero lo sono molte persone di questo secolo, sia cristiani che musulmani. Mia madre mi trasse al mondo in un porto di mare di nome Mundatxa, nella casa Zubileta, collocata tra i due ponti.

        Il destino con la mia famiglia è stato funesto, crudele, spietato; e sebbene in talune occasioni abbia sentito la felicità ribollire dentro di me, assai più frequentemente mi ha lasciato l'amaro in bocca. Pongo sulla bilancia della mia vita alcuni momenti di bellezza e giungo alla conclusione che è valsa la pena vivere. Questo secolo, di cui abbiamo cominciato a vivere la fine della seconda metà e il secolo anteriore che abbiamo visto morire, entrambi, sembra, sono i secoli di maggior progresso che la storia abbia mai conosciuto. Non so se sia davvero così. In realtà l'unica cosa che so con certezza è che il ferro e il fuoco ci hanno aperto molte ferite, che quelle ferite sono state cosparse con polvere di zolfo, e che ci è stato imposto il freddo della morte con guerre, epidemie e lebbra.

        Forse per il fatto di essere nato nell'anno di sventura della guerra, le calamità hanno segnato il corso della mia lunga vita. Come ho già detto, venni al mondo nel 1571, l'anno in cui avvennero i fatti di Lepanto. Una battaglia sciagurata quella di Lepanto, giacché vi morì mio nonno, inchiodato al suo banco, remando contro l'impossibile. Lo dico senza provarne vergogna, il nonno fu portato alla guerra con la forza. Coloro che peccano di presunzione, invece, preferiranno affermare che quella fu la fine del Turco infedele, senza accennare alla rovina che portò a molte case di questa zona; oppure dire che quell'anno Legazpi, originario della provincia di Gipuzkoa, conquistò le isole denominate Filippine. Anche per lui la gloria fu di breve durata, poiché l'anno successivo morì.

        Non è ancora nato colui che può sfuggire agli artigli della morte, perché prima o poi per tutti giunge l'ora. Sono pochi coloro che, in questi tempi, possono contare quaranta primavere e molti meno coloro che, come me, possono contarle due volte. Dirò di più: è così inconsueto che una persona viva tanto a lungo, che non mancano coloro i quali affermano che, se sono giunto fino a quest'età, lo devo al patto che avrei stretto con streghe, stregoni, guaritori e simili. Ma in fondo, cos'è questa storia di streghe e maghi, erbe magiche e pozioni?

        Uscendo dall'imboccatura del nostro porto e guardando a dritta sopra la murata, si può vedere, dietro il monte chiamato Oiz, la cima gibbosa del monte Anboto; si dice che sulle sue falde vivano le streghe di Durango. A ponente dell'Anboto si possono intravedere altre cime e dietro queste si trova il paese di Zeberio. Ai tempi in cui io ero fanciullo, il nome di Zeberio provocava brividi di terrore; in quel luogo, Katalintxu di Gezala, una bimba di otto anni, aveva fatto spaventose dichiarazioni all'Inquisizione.

        Per le affermazioni di quell'insensata di Katalintxu, il lungo braccio dell'Inquisizione si era portato a Bilbao molti cristiani di Zeberio, tra i quali anche sua madre. Dicono che anni prima, quando ancora portava nel ventre Katalintxu, la donna assicurasse che quella creatura che doveva ancora nascere era figlia del diavolo e che sarebbe stata l'Anticristo; ma si sbagliò. Successivamente ebbe un'altra gravidanza e dichiarò, blasfema, che se la creatura che stava per nascere non fosse stata l'Anticristo, lei stessa sarebbe morta. La madre morì, l'Anticristo non nacque e le grandi montagne che circondano Anboto continuarono a essere maestose come sempre. Quando guardavo quelle cime, finché non scomparivano nella nebbia, sentivo la paura dei tormenti dell'Inquisizione.

        «Sono tutte storie, ragazzo» mi rispondeva lo zio, tutte le volte che gli raccontavo qualcosa sulle streghe che avevo sentito al porto.

        Saranno state anche storie inventate, ma agli abitanti di Zeberio fu imposto un duro castigo. Nonostante questo, non si accesero roghi e mai si vide del fumo sulle pendici dell'Anboto: condannarono le streghe e i guaritori a vivere legati e a nutrirsi solo d'acqua.

        Con il passare del tempo, mi resi conto che lo zio aveva ragione: la maggior parte delle cose narrate erano delle invenzioni, ma quei racconti stregarono i primi anni della mia vita. Successivamente, quasi senza che me ne rendessi conto, le testimonianze degli uomini che portavano notizie dai mari lontani avrebbero preso il posto dei racconti di stregoneria. La passione per il mare divenne fuoco ed è mia intenzione raccontare quegli anni infuocati della mia gioventù.

        Lo riconosco: cercando la soddisfazione che avrebbe potuto spegnere quel fuoco, mi toccò in sorte di trovarmi gomito a gomito con alcuni uomini importanti. Sebbene ostentassero titoli e nomi altisonanti, erano esseri deboli e di carne, come chiunque altro.

        Strinsi la mano a Drake, che gli inglesi chiamavano sir e, ve lo giuro, nonostante mi veda costretto a smentire radicalmente quello che affermavano i seguaci di Filippo ii, quell'uomo non possedeva nessuno specchio del demonio. Riconosco che da giovane anch'io fui credulone, disposto a prestar fede a qualunque diceria, anche a quella secondo cui sir Francis possedeva un simile specchio magico, lo specchio delle illusioni, attraverso il quale il diavolo gli mostrava com'erano e dove si trovavano le imbarcazioni dei nemici e degli avversari, in modo così certo e chiaro come se avesse quelle navi davanti agli occhi.

        Drake era un abile marinaio, così come lo fu nelle faccende di mare Okendo, il cui nome era Miguel. Purtroppo sono molti coloro ai quali l'abilità e l'intelligenza sembrano stregoneria, tanto tra noi come in qualunque altro luogo battuto dal vento della superstizione.

        Lo stesso re Filippo era molto superstizioso. Non raccontano forse che egli fosse convinto che il suo esercito sarebbe uscito vittorioso da quella battaglia d'Inghilterra, conosciuta come la disfatta dell'Invincibile Armata, solo perché così gli aveva predetto una donna, apparsagli in sogno, e alla quale Dio aveva inviato le stigmate del Cristo su piedi e mani?

        Il volto di quella donna, che viveva in un convento di Lisbona e rispondeva al nome di María de la Visitación, appariva sempre circondato da un alone di luce, e si diceva che si alzasse da terra senza appoggiarsi a niente e a nessuno, come se degli angeli l'aiutassero a sollevarsi. Per tutti i diavoli! Pare che sia stato lo scaltro mandatario dell'Inquisizione a chiarire di quali trucchi si avvalesse la donna: le ferite erano di polvere di carminio, quella corona di luce che le circondava la testa l'effetto di alcuni specchi, frutto di un complesso meccanismo che portava sotto il vestito le sue ascensioni. L'avranno fatta uscire dalla cella dove la rinchiusero?

        Ci fu un tempo in cui presi a modello Miguel di Okendo, un miserabile nelle mie stesse condizioni, nato pastore e giunto a essere nominato ammiraglio dal re di Castiglia. Anch'io sarei riuscito, prima o poi, a imbarcarmi su una grande nave. Un destino crudele volle che Okendo mi avesse al suo fianco durante i funesti eventi che avrebbero causato la sua morte.

        Drake, re Filippo, Okendo: quanti nomi e titoli solenni! Adesso sono tutti morti. Ma furono dei cristiani assai più umili a riempire la mia vita di pene e di felicità, e sebbene anche costoro, come quei personaggi importanti, siano passati a miglior vita, nessuno è più vivo di loro dentro il mio cuore.

        L'unico padre che ebbi fu zio Juan, giacché il mio padre naturale morì quando io ero ancora piccolo. Ricordo vagamente com'era mio padre. Poche volte dovetti vederlo in casa, quell'uomo grande e sgraziato, perché non solo morì giovane, ma il breve tempo che visse lo trascorse navigando per il mondo, cosa cui lo obbligava il suo mestiere di marinaio.

        A mia madre non nacquero altri figli, per lo meno vivi. Avevo sentito che aveva dato alla luce una bambina, ma che era nata già morta. Nessuno avrebbe mai parlato di quest'avvenimento e io probabilmente non ne avrei saputo niente, se a zio Juan, una volta, casualmente, non fosse sfuggito un accenno.

        Ricordo che ci eravamo recati al quartiere di San Bartolomeo, che si trova a una mezza lega di cammino da casa nostra, mia madre, lo zio e io; io ero ancora una creatura di sette anni. Non dimenticherò mai quel giorno; era il 26 di agosto. Ci avviammo presto, sulla Via Reale che gli animali da soma percorrevano nel loro andare e venire dalla Castiglia. Il sole aveva coperto un quarto del suo percorso celeste, quando giungemmo a una piccola cappella che si trova al bordo della strada. Mi sorprese molto che ci fosse una sagra; suoni di flauti e tamburelli, danze e bandierine, sembrava proprio che quello fosse un gran giorno di festa per la gente del posto. Mia madre, invece, entrò in chiesa e, avvicinatasi all'altare, accese una candela, per andare poi a inginocchiarsi su un banco dalla parte dove pregano le donne. Lo zio rimase fuori, tenendomi per mano.

        «Beata tua sorella! Qualcuno, lassù, ha voluto far giustizia, Sebastian» disse lo zio, un po' tra sé e sé e un po' in modo che io sentissi.

        «Dove, zio?» dissi io, senza capire la ragione delle sue parole. «Io non ho nessuna sorella, no?»

        «Sì, tu hai avuto una sorella, ma è nata morta.»

        Non ebbe il tempo di chiarire ulteriormente la questione perché in quel momento mia madre si alzò e venne verso di noi. Lo zio si cucì la bocca e non fece più riferimento al fatto finché non fui io a ricordargli quella conversazione. Quando lo feci ci dedicavamo già al cabotaggio.

        «Che cos'hai, figliolo?» mi chiese in un'occasione, come faceva tutte le volte che il mio silenzio lo preoccupava.

        Lasciandoci trascinare dalla corrente, quel giorno avevamo risalito il fiume salato* con un carico di calce da trasportare fino a Gernika. Là, sulla riva, a una distanza equivalente a un buon tiro di balestra, in vista dell'abitato di San Bartolomeo, essendo io rimasto a lungo in silenzio, mi fece quella domanda.

        «Una volta che andammo a San Bartolomeo, non so se lo ricordate, mi parlaste di una sorella e, benché siano ormai passati degli anni, io non ho dimenticato quello che voi mi diceste. Nessuno me ne parla in modo chiaro, mia madre non dice niente e la capisco, perché immagino quanto deve aver sofferto nel dare alla luce una bambina morta; quello che invece non capisco è quanto Voi affermaste sulla giustizia, né la ragione che vi spinse a parlarmene.»

        Rifletté a lungo prima di darmi una risposta. Se non mi sbaglio, valutò se ero o no giunto a un'età in cui si può conoscere un gran segreto come quello. Alla fine pronunciò alcune parole che non fecero altro che ingigantire il mistero.

        «Noi ne venimmo a conoscenza solo dopo un certo tempo, ma la notte di san Bartolomeo, i seguaci di colui che chiamano il santo Padre di Roma, a Parigi, strapparono dal loro corpo migliaia di anime: erano ugonotti quelli che persero la vita a opera dei cattolici» prima di continuare meditò a lungo su quello che mi avrebbe detto. «Più di una persona crede che tutti quei neonati che morirono quella notte lontano da Parigi, e furono molti, siano stati portati via da Dio per ristabilire un po' di giustizia tra i morti degli uni e quelli degli altri. Come ti ho detto, le persone assassinate a Parigi erano ugonotti, e morirono tutti in una sola notte. Al mattino successivo tua madre cominciò ad avere i dolori del parto: tu avresti avuto una sorella, ma nacque morta.»

        Che secolo crudele il nostro, che dicono essere il decimosesto dopo la nascita di Cristo: abbiamo trascorso il breve spazio che ci è dato per vivere ad ammazzarci gli uni con gli altri in nome di Dio. E affermo "dicono essere il sedicesimo" con una certa diffidenza, la stessa con cui mi parlò allora zio Juan, perché la vita stessa mi ha insegnato a utilizzare dicono che e forse invece di sicuramente e com'è vero Iddio. Ma allora, immerso nelle sue spiegazioni, non mi resi conto che diceva: di colui che chiamano santo Padre, perché tutto il mio interesse era rivolto a scoprire chi fossero mai gli ugonotti.

        Non c'è bisogno che spieghi a nessuno chi erano coloro che chiamavano ugonotti. Ci sono molte persone che per burla o per disprezzo fanno rimare questa parola con altre che terminano in otti. Dirò, in ogni caso, che chiamano ugonotti tutti coloro che, in Francia o nel regno di Navarra, professano la fede di Calvino. Ricordo ancora un cantilena francese che, non sono certo di saper ripetere esattamente, dice più o meno così: je n'aime point ces noms qui sont finid en o: Gots, Cagots, Ostrogots, Visigots et Huguenots.

        L'odore del massacro della notte di san Bartolomeo giunse fino a noi, come risulterà chiaro dopo questo episodio che mi accingo a raccontare. Ma non era questo ciò che volevo narrare ora, bensì che mia sorella morì senza vedere la luce, all'alba del giorno in cui il sangue degli ugonotti scorreva a fiumi per le strade di Parigi.

        Gli unici parenti vivi che avevo erano dei cugini; vivevano in quella terra nota come la provincia di Gipuzkoa; benché uno di loro sia stato, successivamente, responsabile di deviare il corso del mio destino, non gli serbo rancore.

        Nelle pietre che cadono dal cielo stava scritto, senza dubbio, tutto quello che sarebbe successo, vergato a lettere di fuoco, il fuoco del mio destino.

        Mia madre non mi abbandonò tanto presto. Nonostante fossi già un uomo adulto quando se ne andò, la piansi a lungo, come un bambino. Ci fu anche un'altra donna in casa nostra, la moglie di zio Juan, o la sua donna, o quello che fosse, giacché nemmeno oggi so quale nome desse la legge al legame esistente fra di loro. La moglie di zio Juan era straniera, veniva da molto lontano, era una donna dalla pelle color del carbone. Quello avrebbe dovuto essere per me il profumo di femmina di cui ha sempre bisogno un giovane uomo, essendo molto più giovane di mia madre. Ma non fu così, disgraziatamente. Dal momento che parlerò a lungo ed esaurientemente di quello che, sono giunto a concludere, non fu solo una disgrazia, ma la maledizione della balena, preferisco in questo momento far riferimento solo al dolce ricordo che di lei conservo.

        Come ho detto, la moglie dello zio aveva la pelle color del carbone. Sebbene non si conoscesse la sua origine, fu da Cuba che zio Juan portò quella donna che chiamavano Ebora.

        Paragonerei la pelle di Ebora alle notti d'inverno, sembrano nere ma in fondo celano un tocco di blu, sì, e coloro che sono in grado di scrutare nel fondo della notte possono scorgere, in mezzo alla nebbia, una luce speciale; Ebora possedeva quella luce e tutto in lei ricordava lo splendore delle stelle nel firmamento. Quella donna rappresenta per me tutto quanto di buono ha avuto il secolo che ormai è passato.

        Il secolo scorso iniziò con la scoperta di quella terra infinita che chiamano America, e il suo nome raggiunse ben presto le terre di questo Vecchio Mondo. Forse perché si diceva che era un luogo dove si poteva far fortuna, furono molti coloro che credettero di vedere in essa una porta aperta alla nuova età dell'oro. Inoltre, da quando in quell'angolo del mondo, ora lontano, che è il Paese Basco, il sangue versato inzuppava la terra, l'America aveva aperto le sue finestre all'odio cieco e agli antichi e inveterati desideri di vendetta. Quei grandi uomini ­ gentiluomini! ­ coinvolti nelle contese e nelle guerre delle fazioni, trovarono in quel continente un luogo dove poter bagnare le spade ed esaltare la gloria. Ma quelle guerre lasciarono una traccia profonda e in realtà mai fu possibile placare gli odi, né interrare la superbia. I poveri e i bisognosi desideravano ardentemente, come colti dalla febbre, recarsi in quel continente che sembrava trasformare tutti in cavalieri, e anche lo zio Juan venne preso da quella febbre.

        Purtroppo, quando lo zio riuscì ad arrivarvi, l'America più che un paradiso era diventata un inferno. Gli indigeni, coloro che erroneamente chiamarono indiani, morivano a causa di terribili malattie o di armi ancora più spaventose, e il posto dei morti veniva occupato da neri ridotti in schiavitù e portati dall'Africa; i pochi che vivevano agiatamente erano coloro che se ne erano andati da qui, diceva zio Juan.

        Nelle lunghe sere trascorse davanti al camino, lo zio era solito raccontarci le avventure di quel lungo viaggio e, seguendo i fili dei suoi racconti, io imbastivo dentro di me un'immagine di quelle terre d'oltremare, tra la nebbia e i rovi.

        Ah, quelle notti davanti al fuoco! Ebora ascoltava senza capire molto, mia madre faceva smorfie di malumore e io, l'unico giovane della casa, rimanevo senza parole, con la bocca spalancata, come un bambino che ammutolisce nel vedere una stella cadente muoversi velocemente nel cielo. Quelle veglie davanti al fuoco accesero in me il desiderio di conoscere i grandi mari e di vivere memorabili avventure, come si accende il desiderio di sposarsi nelle giovani donne quando, con gli uomini, lavorano nella raccolta del mais, oppure quando, senza di loro, trascorrono lunghe veglie nel lavoro collettivo.

        Non sono un uomo di molti studi. Controvoglia e mio malgrado, imparai a leggere quello che gli altri scrivevano e a scrivere le cose mie, prima che il destino mi chiamasse ad altre incombenze. Ero molto bravo nell'apprendere tutto ciò che aveva a che fare con la navigazione, e ho sempre avuto una predisposizione speciale per le lingue, come era solito dire il signor Zubiaur, che fu il mio maestro. Per il resto, tutto quello che ho imparato l'ho appreso per conto mio, con l'esperienza e con l'aiuto di coloro che sono stati al mio fianco, soprattutto grazie ai capitani, agli ufficiali e agli scrivani che ho avuto nelle armate dove ho prestato i miei servizi. Il prezzo di questo apprendimento è stato, molte volte, quello di trovarmi obbligato a vedere il sangue di quei miei maestri scorrere sui ferri o colare tra le assi del ponte. Non fui forse io stesso a deporre il corpo senza vita di Zubiaur nella cassa?

        Conosco la lingua che si usa in mare, un miscuglio di molte altre lingue del mondo. Mi affascinano, oltre alle parole della lingua basca, quella castigliana e l'inglese, il fiammingo o l'arabo del Mediterraneo; anche se chi, come noi, è stato a lungo in mare possiede una lingua propria, forse più adatta per parlare con il diavolo che con Dio, ma in ogni caso sua.

        Come vuole la tradizione dei paesi della nostra costa, iniziai fin da piccolo a navigare, all'inizio aiutando zio Juan, giacché la povera rendita che la corporazione dei pescatori passava a mia madre vedova non era sufficiente a soddisfare le nostre necessità. Cosicché eravamo soliti portare pesce in abbondanza, in quanto, nonostante lo zio avesse un braccio inerte, seppe sempre supplire a quella limitazione con esperienza e intelligenza.

        Chiunque volesse sapere il nome di un pesce, le arti per pescarlo, le abitudini degli uccelli, i cambiamenti del tempo o qualunque cosa che avesse a che fare con la vita del mare, non doveva fare altro che rivolgersi allo zio. Una piccola rimembranza di quella sapienza, direi simile a un'eco, è rimasta dentro di me. Nonostante tutto, mi stupiva vedere che, seppure lui fosse così abile, mentre tutte le barche pescavano una vicina all'altra nella baia, la nostra rimaneva sempre a una certa distanza.

        È certo che, essendo noi solo in due, eravamo condannati a navigare sempre su una piccola imbarcazione e con questa giustificazione lo zio mi spiegava che, se mantenevamo la barca separata dalle altre, non era solo perché questa era piccola, ma anche perché la tecnica che noi utilizzavamo per pescare era assai diversa rispetto a quella degli altri. Nonostante tutto questo, a volte i gabbieri si avvicinavano alla nostra barca e scambiavano con mio zio parole e gesti per me incomprensibili, ma anche lui era stato un marinaio di vedetta, e non uno qualsiasi, da quanto si dice.

        In quel pescare solitario c'era qualcosa di oscuro: mi si manifestava come una preoccupazione impossibile da definire, o un'inquietudine incerta, difficile da concretizzare. Il tempo mi avrebbe chiarito la ragione di quello strano comportamento; ma essendo io ancora un fanciullo, non mi era difficile liberare la mia mente dalle preoccupazioni. Grazie all'abilità dello zio nel governare le vele, riuscivamo a compiere delle manovre con maggior destrezza e precisione che se fossimo stati sei marinai. Non era tuttavia la stessa cosa pescare così, da una scialuppa, o solcare i mari su una grande nave. Per cominciare, desideravo andare in inverno fino ai mari d'Irlanda, alla pesca di pagelli e sardine; successivamente, sognai di imbarcarmi, un giorno, in una grande armata, senza rendermi conto che re Filippo raggiungeva sì le terre più lontane del mondo intero, ma per fare la guerra e che, nel fondo dei mari, tanto nelle lontane isole d'America o dell'Africa, come nelle acque più vicine dei Paesi Bassi, della Francia, di Genova e di tanti altri luoghi, marcivano i corpi di molti marinai. Mentre si avvicinava il gran giorno, mi consolavo pensando di essere colui che meglio si destreggiava con palamiti e guadini.

        E così aspettavo, senza allontanarmi mai troppo dal porto, che un giorno la fortuna cambiasse il mio destino. Pertanto, non c'è da stupirsi che, all'alba di quel giorno, io mi trovassi al porto, pronto a scattare come una saetta agli ordini dello zio. Il giorno successivo alla festa di Ognissanti del 1586, al mattino, quando il talaiero* gridò: «Balena in vista!» desiderai ardentemente salire sulla barca che sarebbe salpata alla caccia di quell'animale.

        Quella era la mia occasione, il primo passo del cammino che portava fino alle grandi navi. E il destino mi trovò preparato.

 

 

© Edorta Jimenez
© Traduzione: Roberta Gozzi


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